Modi per proteggersi
di Alexa
Nazzaro
(segue l’originale inglese)
Tre mesi fa mio figlio Jake ha lasciato il college per lavorare in un caffè. Mia
moglie e io siamo venuti a saperlo da Louise, una donna dall’aspetto fragile e patetico che ci
porta il giornale. Quando se lo è lasciato sfuggire dalle labbra tra un
commento sul tempo e il biglietto da venti che avevo tirato fuori per
l’abbonamento mensile, le è salito alle guance un rossore che l’ha resa quasi
attraente, mentre contava coscienziosamente il resto da darmi come un segno di
pace per aver insozzato il mio mondo.
Quando gliene abbiamo
parlato, lui non ha né confermato né negato, preferendo restare nell’universo
indeterminato della sua generazione. Si è stretto nelle spalle ossute, facendo
frusciare i capelli troppo lunghi, e i suoi occhi sono rimasti incollati al
tavolo. Mia moglie ha alzato le braccia al cielo, mentre io sedevo in silenzio,
dopo aver concluso che domandare quale forza avesse
indotto mio figlio a fare ciò che aveva fatto era un dannato cliché.
Mia moglie e io abbiamo mantenuto un’apparenza
esterna di intangibilità nei confronti di questa crisi. Le siepi sono ancora
livellate, il giardino roccioso non è andato in malora, e in settembre ho
rinnovato il contratto per far portar via la neve. Posso ancora vedere il mio
riflesso nell’antica, gigantesca sala da pranzo ereditata dai miei suoceri;
asparagi e broccoli continuano a essere cotti al
vapore a una perfetta croccante sfumatura di verde, e la cena di Thanksgiving, la
settimana scorsa, è stata arricchita da una grande quantità di foglie di senape
sulla tovaglia, messe in modo apparentemente casuale, ma precisamente
calcolato. Esitiamo appena quando i vicini vogliono
sapere di Jake, e sorridiamo ampiamente quando ci
regalano storie dei loro figli che vincono borse di studio, hanno impieghi in
grattacieli dotati di grandiose sale per conferenze, o sono chiamati a far
parte della MacArthur Foundation.
Continuiamo a scambiarci il bacio della buona notte mentre
ci infiliamo sotto bianche lenzuola dall’incerto profumo di aria di montagna o
di primavera, senza indietreggiare neanche una volta e ammettere che adottare
ci è passato per la testa.
Cerco di rassicurarmi che il nostro rifiuto di andare al caffè dove lavora Jake non è per negligenza o per un malsano senso di
diniego. Ci siamo informati sul soggetto, sia in termini geografici che sotto
altri aspetti, di solito a cena. In quelle occasioni mio figlio ci lanciava
sguardi torvi mentre ci passavamo gli asparagi, il
risotto, o le braciole di maiale, come se non fossero solo le nostre domande a
irritarlo, ma la nostra stessa esistenza. Alla fine borbottava qualcosa nel
tono che io uso con mio padre quando lo trascino dal
dottore.
“È proprio tra il fruttivendolo e l’ufficio postale, ma non sognatevi di
chiedermi di cominciare a comprare della frutta per voi ...”
“Per adesso va bene.”
“Non fasciatevi la testa, non ho intenzione di farlo per tutta la vita.”
Oggi è un giorno diverso. Forse le tragedie del mondo mi hanno finalmente
messo a terra. Forse non voglio che mio figlio fra dieci anni scriva canzoni arabbiate o libri su di me. Mia moglie sembra molto perplessa quando elenco queste ragioni, ma interrompe ciò
che sta cucendo abbastanza a lungo per scrivere il nome della frutta da
comprare sul retro di una vecchia ricevuta di Sears. Mi
sento colmare da una certa fiducia. Ho il permesso scritto di andare a trovare
mio figlio, un biglietto da mettergli davanti agli occhi nel caso volesse spararmi per aver invaso lo spazio in cui sta
cercando di trovare se stesso.
Entro nel caffè e immediatamente lo cerco. Sono le due del pomeriggio e il
posto è tranquilo. Vado verso il banco che mette in mostra tutte le leccornie sotto vetro. Immagino mio figlio
che tira fuori con pecauzione muffins per la gente importante e
indaffarata del mondo con le loro belle macchine lasciate accese fuori.
Jake mi volta la schiena quando vado al banco, ma con il sesto senso per
sentire i clienti che ha probabilmente sviluppato negli ultimi tre mesi, si
gira velocemente e mi saluta. I suoi capelli arruffati sono legati sulla nuca
in una coda di cavallo, e mi trovo già ad approvare questo lavoro.
“Ciao, papà ...” La sua voce si abbassa nell’incertezza. Sta aspettando che
gli dia la ragione della mia visita: una morte in famiglia, o sua madre
all’ospedale.
“Ciao, figlio.” Cerco di rendere la mia voce il più rilassata possibile. Cristo,
mi prenderei a calci, ma una ragazza ha cominciato a lavare il pavimento
intorno a me, e ho bisogno di tutti e due i piedi per
restare in equilibrio.
“C’è qualcosa che non va?”, domanda Jake. “La
mamma sta bene?”
“Sì, sì, la mamma sta bene.”
Sua madre era solita cullarlo tra le braccia fino a che ha
avuto dieci o undici anni, sussurrandogli quanto fosse bello. Il massimo
che io potessi fare era di portarlo a pescare, e
spiegargli goffamente a cosa servisse l’aggeggio appeso nel garage di mio
suocero. Dal sollievo che gli vedo ora negli occhi
capisco che l’essere cullato ha vinto.
“Non è venuta con te?”
“Aveva da fare”. Respiro profondamente e sorrido. “Sono venuto da solo.”
Jake si stringe nelle
spalle e mi rendo conto che questa notizia è per lui tanto eccitante
quanto un palloncino sgonfio. Lui lancia uno sguardo alla ragazza che sta
lavando il pavimento. Lei fa un cenno di assenso e Jake si dirige verso un tavolino vicino alla porta. Io lo
seguo e ci sediamo.
“Ho domandato se potevo fare un intervallo e ha detto di sì.” Me lo dice con un certo orgoglio, come se questo
linguaggio silenzioso tra le anime perse che si nascondono
dietro i banchi dei caffè dovesse impressionarmi. In effetti
lo fa, in un certo strano modo, ma faccio finta di niente. Mi
irrita che una ragazza con una maglietta con scritto “Non ci sono
caramelle, sali in macchina” sappia parlare con mio figlio meglio di me.
All’improvviso ho voglia di avere davanti un muffin da spezzare delicatamente,
o che le mie dita siano abbastanza sottili da
permettermi di giocherellare con la fede senza tirare i peluzzi
sulla nocca. Jake si è tolto l’elastico dai capelli e
li passa ora da una mano all’altra.
“Vuoi assaggiare qualcosa?”, domanda alla fine. Accenno
di sì, anche se il mio stomaco è ancora pieno del pranzo.
“Ma qualcosa di piccolo”, rispondo.
Ritorna con un biscotto di avena che sembra un piccolo
pianeta, e mi guarda attentamente. Mi rendo conto che questo è un esame, una
visita privilegiata nel suo mondo. Procedo con precauzione, assicurandomi che
le uvette nella pasta non mi cadano in grembo. Dò un
morso. È asciutto, come una terra inabitabile.
“Ti piace?”, domanda Jake. Le sue sopracciglia si
stringono nella concentrazione, come fa sua madre, e posso solo pregare che la
mia bugia non sia svelata.
“È buono”, dico.
“È la mia prima infornata”, annuncia orgogliosamente.
“Li hai fatti tu?”
Fa un cenno di assenso.
“Pensavo che questi posti avessero tutto surgelato”, dico, inghiottendo un
boccone con la maggior grazia possibile.
Un’espressione di disappunto gli attraversa il viso. “Sono solo quelli
delle catene”.
Il suo tono impaziente è ovvio. “Mi sono informato”. Vacillo tra un senso di orgoglio perché è stato così attento nel selezionare un
lavoro a salario minimo, e il desiderio struggente di prenderlo a pugni.
“Questo posto è diverso. Hanno caffè equo e solidale, la
roba è sana. Questi biscotti non hanno neanche la metà del burro che la
mamma ci mette.”
Sorrido mentre un altro
boccone si fa strada nel mio esofago.
“Allora ti piace lavorare qui?”, domando con precauzione.
Si stringe nelle spalle. “Per adesso”.
Muovo la testa con energia per acconsentire, come se fosse
la risposta che mi aspettavo, mentre con la mano stringo il biscotto. Mi sento
come un concorrente senza punti nel lancio del peso e prego che Jake non se ne accorga. Lui,
semplicemente, mi guarda quasi con simpatia.
“Il modo migliore di mangiarli è di spezzarli in quattro. È così che tutti quei sporchi ricchi li mangiano”. Strabuzza gli occhi e la
ragazza con la maglietta offensiva comincia a ridacchiare.
Stringo più forte il biscotto, L’odore dell’avena mi sale al naso e si
spande su ogni dito; le mie impronte digitali segnano le sue rigature; le
uvette che emergono mi incavano la pelle e il sudore
che cola dalle palme si mescola all’unto di cottura. Resto così per un momento,
sorridendo a Jake, ma lui è troppo occupato a
guardare fuori dalla vetrina.
Vedo il taglio prima che avvenga. Un zig zag
in diagonale erode la pasta da sinistra a destra, fendendo il biscotto fino a
che la metà più grande cade sul tavolino in un mucchio di grosse briciole.
Prima che mio figlio se ne accorga, raccolgo dal
cumulo un’uvetta che si è staccata e la tengo tra le dita, la sua dimensione
maneggevole, la sua morbidezza tra le mie dita consolante.
**************fiction
Alexa Nazzaro studia Creative Writing alla Concordia University. Altri suoi lavori
comprendono il racconto “Possession” che sarà
pubblicato nell’edizione autunnale di Soliloquies.
Hedges*
Three months ago, my son Jake dropped out of
college for a job at a coffee shop. My wife and I found this out from Louise, a
pathetic and frail looking woman who delivers our paper. When she let it slip
out between a comment on the weather and the twenty I pulled out for that
month's subscription, a blush rose to her cheeks that almost made her
attractive, and she painstakingly counted out my change as a token of peace for
defecating on my world.
When we confronted him with it, he neither
confirmed nor denied it, preferring to lose himself in that
neither-here-nor-there universe of his generation. His bony shoulders shrugged,
his too-long hair swished and his eyes stayed glued on the table. My wife threw
up her hands, while I sat in silence after concluding that demanding the
identity of the force that had put my son up to this was too bloody cliché.
My wife and I retain an unshaken exterior in the
face of this crisis. The hedges are still even, the rock garden hasn't gone to
shit, and I signed my snow removal contract in September. I can still see my
reflection in the ancient, gargantuan dining room set inherited from my
in-laws; the asparagus and broccoli continue to be steamed to that perfect
crisp and shade of green, and Thanksgiving dinner last week was complete with
mustard leaves showering the tablecloth in that highly calculated but seemingly
haphazard fashion. We barely flinch when neighbours
inquire after Jake, and smile generously as we're regaled with stories of their
children winning scholarships, jobs in skyscrapers with impressive conference
rooms, or MacArthur Foundation fellowships. We still
kiss each other goodnight as we climb under white sheets with ambiguous scents
like mountain air or springtime, while never once buckling and admitting that
adoption has crossed each of our minds.
I try and reassure myself that our refusal to visit
Jake's coffee shop isn't out of neglect or an unhealthy denial. We've asked
about the place, in both geographical terms and otherwise, usually over dinner.
My son will glare at me while passing the asparagus, risotto, or pork chops, as
though it's not only our questions that irritate him, but our very existences.
He'll finally mumble something with an exhaustive tone that I use with my
father when I drag him to doctor's appointments:
"It's right between the fruit store and the
post office, but you guys better not ask me to start buying fruit for you, I
swear."
"It's fine for now."
"Don't freak out, I am not going to do this my
whole life."
Today is different. Maybe the tragedy of the world
has finally worn me down. Maybe I don't want my son writing bitchy songs or
books about me ten years down the road. My wife looks very bewildered when I
list these reasons, but pauses long enough from her sewing to write up a list
of fruits to buy on the back of an old Sears receipt. A certain confidence
fills my belly. I have written permission to visit my son; a note to flash
before his eyes should he want to shoot me for invading his space in which he's
trying to find himself.
I walk into the coffee shop and immediately search
for him. It's two o'clock in the afternoon and the
place is quiet. I walk toward the counter displaying all the goodies through
the glass windows. I imagine my son gingerly fishing out muffins for the big,
busy people of the world with their nice cars running outside.
Jake has his back to me when I get to the counter,
but with the sense of customers that he has probably mastered in the last three
months, he quickly turns to greet me. His wild hair is tied back in a ponytail
and I find myself liking this job already.
"Hi, Dad … " His voice trails off in
confusion. He is waiting for me to give him the practical reason for my visit:
a death in the family or his mother in the hospital.
"Hi, son." I try the most laid-back voice I know. Christ, I
could kick myself, but a young woman has started mopping the floor around me,
and I need both feet to keep balance.
"What's wrong?" Jake asks. "Is mom
alright?"
"Yes, yes,your
mother is fine."
His mother used to cradle him in her arms until he
was ten or eleven, and whisper how beautiful he was. The best I could do was take him fishing and awkwardly explain the purpose of the
centerfold that hung in my father-in-law's garage. From the look of relief on
his face now, I know the cradling won out.
"She didn't come with you?"
"She was busy." I take a deep breath and
smile. "I came to visit you alone."
Jake shrugs, and I can see that this news is about
as exciting as a lead balloon. He looks over at the girl who's been washing the
floor. She nods and Jake walks over to a small table by the door. I follow him
and we sit down.
"I asked if I could take a break and she said
yes." He tells me this with a certain amount of pride, as though this
silent language flowing between the lost souls that lurk behind glass counters
of coffee shops should impress me. It actually does, in a weird kind of way,
but I pretend otherwise. I resent that a girl wearing a t-shirt that says,
"There's no candy, just get in the car!" knows how to speak to my son
better than I can.
I suddenly wish I had a muffin before me to gently
break apart or that my fingers were slim enough to permit me to play with my
wedding band without pulling the hairs on my knuckle. Jake has pulled the
elastic from his hair and it's now being pushed from hand to hand.
"Do you want something?" he finally asks.
I nod, even though my stomach is still full from lunch.
"But something small," I reply.
He comes back with an oatmeal cookie the size of a
small planet, and eyes me carefully. I realize that this is a test, a
privileged visit into his world. I proceed with caution, making sure the
embedded raisins don't fall on my lap. I take a bite. It's dry, like
uninhabitable land.
"How is it?" Jake asks. His eyebrows are
narrowed with the concentration of his mother, and I can only pray that my lie
will miss the radar.
"It’s good," I say.
"It was my first batch," he announces
proudly.
“You made these?"
He nods.
"I thought these places had everything
frozen," I say, swallowing a chunk with the most grace possible.
A look of disappointment crosses over his face.
"That's just the chains." His tone of impatience is obvious. "I
did my research." I teeter between pride in him for being so thorough in
his selection of a minimum wage job and the consuming desire to clobber him.
"This place is different. They have fair trade
coffee, the stuff is healthy. These cookies don't have half the butter that mom
uses."
I smile as another chunk makes its way down my oesophagus.
"So you like working here?" I ask
carefully.
He shrugs. "For now."
I nod avidly, as though this was the answer I was
hoping for, as my hand cramps up under the cookie. I feel like a pointless
competitor in shot put and pray that Jake doesn't notice. He merely looks at me
almost sympathetically.
"The best way to eat them is to break them
apart in fours. That's how all those bitchy rich people eat them." He
rolls his eyes and the girl with the offensive t-shirt begins giggling.
My grip on the cookie tightens. The oatmeal scent
crawls into my nostrils and out to every finger and toe; my fingerprints mark
its grooves; the protruding raisins dig into my skin and the sweat from my
palms bleeds into the baking grease. I hang on like this for a moment, smiling
at Jake, but he's too busy looking out the window.
I see the cut before it happens. A diagonal zig zag erodes the dough from
left to right, slicing through the cookie until the bigger half falls on the
table in a heap of big crumbs. Before my son can notice, I pick out a loose raisin
from the rubble and hold it between my fingers, its size manageable; its
softness between my fingers soothing.
*First
appeared in Carte Blanche 8, the literary review of the Quebec Writers’
Federation.
*****
Alexa Nazzaro is a Creative
Writing major at Concordia University. Other works include the short story
“Possession,” which will be published in the fall issue of Soliloquies.