Monologo di Lucia
Mary di Michele
(traduzione di
Elettra Bedon)
Gran parte della mia
vita sprecata nel sentirmi colpevole di aver deluso mio padre e mia madre.
Mi fa dubitare di me
stessa.
È impossibile vivere
così.
So che hanno fatto
sacrifici,
me lo hanno detto anche troppo spesso,
rinunciato a una loro vita,
e adesso devono vivere la mia.
Se gliela do, non
ringiovaniranno,
mi faranno soltanto fallire insieme a loro,
perdere l’occasione di scoprire una diversa, se pure
mutevole possibilità,
riuscendo soltanto a perpetuare una specie di
disperazione.
La maggior parte
delle volte non posso parlare a mio padre.
Parlo a mia madre e
lei gli dice quello che pensa
lui sia disposto ad ascoltare.
Lei è sempre stata
il mediatore delle nostre discussioni.
Lui è sempre stato
l’uomo e il giudice.
E ciò che sono arrivata a capire della giustizia
in questo mondo non è piacevole,
quanto spesso sia soltanto una scusa per essere
cattivi o arrabbiati
o accumulare ciò che si possiede,
una giustizia che lava
le mani
Nessuno discute il
diritto dei piccioni di volare
nello sbuffo blu dell’ aria sullo spazio
di un giardino, nessuno discute che il ripetere
sia la struttura della disperazione e della
nostra vita quotidiana
e che il malessere peggiori
quando si smette di parlarsi a vicenda.
Ho smesso di cercare
mio padre in altri uomini.
Ho smesso di vivere
con la bimba bionda che lui amava
troppo.
Adesso cerco un uomo
con mani da musicista,
mani che sanno far cantare il legno,
con mani nude scheggiate da falegname.
Non voglio meccanici
con mani segnate dal grasso
e dai giunti di una macchina.
Non voglio ingegneri
nella mia vita,
né architetti di gabbie.
Voglio stare con i
saldatori di ponti
e i fiumi che li hanno ispirati.
Ho imparato a essere donna tra le braccia di un uomo,
non l’ho imparato da pubblicità di rossetti
o guardandomi allo specchio.
Ho imparato di più
sull’amore guardando mia madre
prendersi cura di mio padre
che leggendo romanzi scottanti nella lista dei successi.
Non ho pensato di
poter essere Anna Karenina o Camille,
Madame Bovary o Giovanna d’Arco,
non ho pensato ci fosse un
come un mantello che rende invisibili
per mascherare la mia mancanza di autoconoscenza.
Il cielo indossa di
nuovo gli stivali da neve.
Devo sistemare le
cose con mio padre prima della fine
dell’anno.
È ora che parliamo
faccia a faccia.
Più che un uomo
stanco, mio padre è un uomo
solitario, disilluso.
Ha imparato da anni
a tenere la bocca
chiusa
a non dire niente
ma continua a pensare
a tutto.
“Se possedessi la lingua come te, mi dice,
anch’io scriverei poesie su ciò che penso.
A te della nuova
generazione non interessa la storia.
Se vuoi che la gente
ti ascolti
devi dirgli qualcosa di nuovo,
e devi conoscere un po’ di storia per farlo.
Sono uno che lavora
e non sono andato a scuola,
ma mi sarebbe piaciuto essere istruito,
avere grandi pensieri, e scriverli,
e avere qualcuno che ascolta.
A te della giovane
generazione non importa niente
dei tuoi genitori
dei sacrifici che hanno fatto per te
dici: ‘Perché l’ avete fatto,
non ve lo avevo chiesto!’
giusto,
ma è giusto?
Sono belle poesie le tue, Lucia,
ma quello che pensi dell’ Italia!
‘un paese di uomini scuri pieni di violenza e di
risate,
un paese che spinge le sue donne a una muta
disperazione.’
Non è
pensi che qui sia diverso?
Devi dire la verità quando scrivi,
come la bibbia. Sono tuo padre, Lucia,
ricorda, io di conosco.’
La verità non è
bella,
la verità è che la sua vita è quasi finita
e non abbiamo più una lingua comune.
Lui ha perso un
dente a metà di quelli superiori,
lo spazio vuoto lo fa sembrare ragazzino e
vulnerabile.
E mi fa vergognare.
È solo
quando è stanco come adesso che può
superare il riserbo, il romano stoicismo,
le labbra serrate contro il dolore
contro le parole d’ amore.
Ho il suo viso, i
suoi occhi, le sue mani,
il suo ansioso desiderio di sapere tutto,
di pensare, di scrivere tutto,
il suo ansioso desiderio di essere ascoltato,
e ci amiamo e non diciamo niente,
ci amiamo in quel paese
dove non abbiamo potuto vivere.
tratto da Italian Canadian Voices (Centro Scuola e
Cultura Italiana, 2006)
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Lucia’s Monologue
By Mary di Michele
So much of my life has been wasted
feeling guilty
about disappointing my father and mother.
It makes me doubt myself.
It’ s impossible to live my life that way.
I know they’ ve
made their sacrifices,
they tell me so often enough,
how they gave up their
lives,
and now they need to
live their lives through
me.
If I give it to them,
it won’ t make them
young again,
it’ ll only make
me fail along with them,
fail to discover a different,
if mutant, possibility,
succeed only in perpetuating a species of despair.
Most of the time I can’ t even
talk to my father,
I talk to mother and she
tells him what she thinks
he can
stand to hear.
She’ s always been the mediator of our quarrels.
He’ s always been the man and the judge.
And what I’ ve come to understand about
justice
in this world isn’ t pretty,
how often it’ s just an excuse to
be mean or angry
or to hoard property,
a justice that washes away
the hands of the judge.
Nobody disputes the rights of pigeons to fly
on the blue crest of
the air across the territory
of a garden, nobody
can dispute that repetition
is the structure of despair and our common lives
and that the disease takes a turn for the worse
when we stop talking to each other.
I’ ve stopped looking for my
father in other men,
I’ ve stopped living with the blond child that
he loved
too well.
Now I’ m looking for
the man with the hands of a
musician,
with hands that can make wood sing,
with the
bare, splintered hands of a
carpenter.
I want no auto mechanics with hands blind
with grease
and the joints of a machine.
I want no engineers in my life,
no architects of cages.
I want to be
with the welders of bridges
and the rivers whose needs inspired
them.
I learned to be
a woman in the arms of a man,
I didn’ t learn it from
ads for lipstick
or watching myself in the mirror.
I learned more about love from watching my
mother
wait on my father hand
and foot
than from scorching novels on the best sellers lists.
I didn’ t think I could be
Anna Karenina or Camille,
I didn’ t think I could be
Madame Bovary or Joan of Arc,
I didn’ t think that there
was a myth I could wear
like a cloak of invisibility
to disguise my lack
of self knowledge.
The sky is wearing
his snow boots already.
I have to settle things
with my father
before the year is
dead.
It’ s about time we tried talking
person to person.
More than a tired man, my father is
such a lonely,
disappointed
man.
He has learned through many years of keeping his mouth
shut
to say nothing,
but he still keeps
thinking about
everything.
“If
I had the language like you,”
he says to
me,
“I would write poems
too about what I think.
You younger generation
aren’ t
interested in history.
If you want people to listen to you
you got to tell
them something new,
you got to know
something about history to do that.
I’m a worker and I didn’ t
go to school,
but I would have liked
to be an
educated man,
to think great thoughts,
to write them,
and to have someone listen.
You younger generation
don’t care about anything in the
past,
about your parents,
the sacrifices they made for
you,
you say: ‘What did
you do that for,
we didn’ t ask you!’
right,
is that right?
These are good poems you have
here Lucia,
but what you think
about
‘a country of dark men
full of violence and laughter,
a country that drives its women
to dumb despair.’
That’ s not nice what you
say,
you think it’ s very
different here?
You got to tell the truth
when you write,
like the bible. I’m your
father, Lucia,
remember,
I know you.”
The truth is not
nice,
The truth is that
his life is almost over
and we don’ t have a common language any more.
He has lost a tooth in the middle of his upper plate,
the gap makes him seem boyish
and very vulnerable.
It also makes me ashamed.
It’ s only when he’ s tired like
this that he can
slip off his reserve, the roman stoicism,
the lips buttoned up against pain
and words of love.
I have his face, his eyes,
his hands,
his anxious desire to know everything,
to think, to write
everything,
his anxious desire to be heard,
and we love each other and say nothing,
we love each other in that
country
we couldn’t live in.
From Italian Canadian Voices (Centro Scuola e Cultura Italiana, 2006).