Tra due rive
sconosciute e distanti: Frammenti di relazione personale con la trilogia
Lives of the Saints di Nino Ricci*
di Gabriel Niccoli
Se questa breve considerazione sulla mia personale
relazione con Lives of the Saints di Nino Ricci, o per
meglio dire con tutta la sua trilogia migratoria, deve avere un inizio, una
sorta di incipit misterioso i cui tratti
apparentemente immutabili ascrivono significazione e identità sia al testo che
a questo lettore privilegiato, allora questo inizio, che in se stesso può
essere considerato una fine, ha luogo in un freddo e fosco giorno nella seconda
metà di marzo del 1961, sulle distese immense dell’Atlantico. Avevo solo
quindici anni quando attraversai quel mitico mare che
adesso, nei frammenti della memoria mi appare al tempo stesso reale e
immaginario, un viaggio oceanico straripante di tutte le sue metonimiche
filiazioni, come un palinsesto atavico le cui ombre ritualizzate
richiamano spiriti logori del passato per difendere il richiamo di codici oracolari da tempo perduti.
Eppure, questo viaggio migratorio classicamente consacrato rimane per me
una sorta di sfera liquida, l’unico segno ondeggiante che meglio controlla la
lettura di entrambi i testi, quello di Ricci e quello
della mia stessa vita, guidando la mia nave Saturnia, nel contempo reale
e immaginaria, verso una meta che mi appare distante e ignota, sebbene
propizia; verso la ricerca di un senso apparentemente stabile, rassicurante, e
duraturo.
Sono stato educato ad essere conforme alla nozione
che una teoria critica valida, scientifica, deve attenersi a schemi
rigorosi per poter confermare i costrutti puramente retorici del testo
letterario, un testo governato dalla propria struttura di leggi interne che
sembrano a loro volta quasi generate per escludere ogni relazione che la
letteratura possa avere con la vita, ruotando come fanno sulle loro
puntellature testuali e intertestuali. E in questo
caso non mi sento di essere un critico letterario; piuttosto, un criticastro
nella migliore delle ipotesi, un devoto dilettante la cui lettura discorsiva
riduce alquanto la tessitura tecnico/letteraria dei vari livelli di significato
del testo, e il cui conseguente goticismo smentisce
gli assiomi di un fondante post-modernismo.
Accostandomi al testo di Ricci, ripeto, non da critico letterario ma da persona impegnata in considerazioni
non-testuali, da lettore, quale sono, le cui premesse, basi e digressioni non
sono altro che reliquie frammentarie della propria personale esperienza
migratoria, mi illudo di sentirmi autorizzato a portare Lives
of the Saints fuori dal suo discorso inter-refenziale, fuori dalla
sfera dei significati molteplici suggeriti dalla sua costante allusione ad
altre correnti, tradizioni e lavori per farlo parlare con me, collocandolo
dunque sulla scia del testo della mia stessa vita. Come i ricordi di Nabokov, come la conversione di Claudel,
come l’egoistica ermeneutica del Dante de La
Vita Nuova. Una sorta di lettura naïf, senza scetticismo né vigilanza da
parte mia, una rilettura, se preferite, di realtà vissute e immaginate senza alcuna utilizzazione teoretica o pratica al di fuori del
proprio costrutto. La voce di Vittorio fà da eco alla
mia voce, il suo silenzio austero articola il mio, dato che per un arcano
volere del fato entrambi attraversiamo l’Atlantico
nello stesso istante, sulla stessa nave, la Saturnia, ed è difficile per
me distinguere le parti vere da quelle immaginarie.
La mia relazione con Lives
of the Saints comincia allora, alquanto
canonicamente, in media res o, volendone mappare una collocazione, nel mezzo del vasto oceano migratorio, come
menzionato. Un locus centrale
liquefatto che mette in scena l’instabile stato di sospensione che al tempo
stesso connette e disconnette, illumina e rende buie entrambe le rive, quella
dell’adolescenza e quella della maturità. Attraverso l’oceano sul mio
vascello saturniano, e mi capita, adesso che mi
spingo verso ponente, di seguire semplicemente le orme di precedenti
generazioni di marinai emigranti, ricollocando il loro destino di viaggio ed incollandolo
al mio. Il mio vascello, mentre a stento mi muovo sulle acque dense e
tenebrose di una memoria fatta di frammenti, è la grande
nave di emigranti che gettò l’ancora sotto gli occhi grondandi
del Vesuvio, gigante antico e sonniloquente, e portò
con sé il solito carico umano di sogni irrealizzati e
di rinnovate speranze, di vecchi bauli marroni e blu pieni di lini bianchi,
raffinati, e di foto scadenti in bianco e nero dei propri cari lasciati a riva,
e ogni macchia e sbavatura su di esse a testimoniare scorci di penosa memoria.
Ricordi di emigrati che, come un testamento, diventano
operativi nel momento in cui la barca della vita di ognuno è pronta a navigare,
come se il vascello, privo ormai di ogni porto, fosse in qualche modo, da quel
momento in poi, destinato a navigare soltanto in un oceano di oblio. Spinto da
un vento ribelle di una memoria sconnessa e da un’aura di solenne tristezza che
solo le navi possono ascrivere alla vita di un emigrato, la mia grande
imbarcazione marittima solca l’abisso e porta a bordo, come già detto, un
ragazzo più giovane di me di circa sette anni il cui nome è Vittorio Innocente.
Arte e vita, storia e finzione si mescolano e ancora una volta non mi è facile
distinguere con certezza l’una dall’altra.
Un malinconico quindicenne dalla voce pacata proveniente da un paesino desolato della Calabria,
uno di quei paesi del profondo sud anonimi e abbandonati, conosciuto negli
studi sull’emigrazione come uno di quei luoghi trasmittenti o da commiato, un
villaggio arcanamente simile alla Valle del Sole, insieme ad una madre
perennemente in lutto, con la sua andatura dignitosa e mesta, con la quale
attraverso anch’io l’Atlantico per raggiungere mio padre, in realtà un estraneo
ma che amavo però profondamente. Sin dalla metà del diciannovesimo secolo i
progenitori di entrambi mia madre e mio padre avevano
attraversato l’oceano in cerca dell’agognata vita migliore. I miei bisnonni
erano ritornati in paese giusto in tempo per occupare la tomba costruita da
poco, orgogliosamente decombenti, sotto la pietra tombale ad ornamenti Rococo, ricompensa dei loro sacrifici in Canada e dei loro guadagni, cadaveri d’argilla ormai e per sempre parte
della propria terra, titolari della topografia sepolcrale del loro paese.
Gravati da anni di fatiche e solitudine, avevano affrontato il pesante fardello
del lungo viaggio di ritorno via mare, l’unico ed ultimo, per poter spendere
gli ultimi momenti della loro vita con i cari da tempo
perduti, non più riconoscibili né, in verità, comprensibili gli uni agli altri.
Non avevano mai perduto la loro fede, avevano vissuto i loro
rituali ed erano ritornati a casa nonostante Dante, molti secoli prima, avesse
distrutto in modo persuasivo il mito della valenza regolatoria
del ritorno ad Itaca, il canonico viaggio verso casa. Nel Novecento il mio
nonno materno aveva scolpito la sua tomba nelle miniere di carbone della British Columbia, mentre il nonno paterno aveva sfidato le
vette del monte Revelstoke, era tornato a casa per
combattere una guerra priva di senso per poi ritrincerarsi
sotto l’ombra rassicurante delle Rocky Mountains, lasciando un neonato nel vecchio, decrepito
paese calabro come pegno a testimonianza della sua ultima presenza in quel
posto. Avevano entrambi riletto le antiche fiamme vaganti
della maledetta bolgia dantesca, avevano negoziato ancora una volta il
loro destino con i loro defunti precursori, preparandoci così la strada,
antichi profeti del divenire di mio padre e del mio stesso divenire. Questa
breve narrazione sull’emigrazione della mia famiglia, che lascia dietro di sé
le gesta eroiche e la triste sventura delle donne senza volto, coperte di un
manto nero come siluette in perenne lutto, costituisce una parte fondamentale del mio senso di
connessione con Lives of the Saints di Ricci.
È l’aspetto che ogni emigrante del sud d’Italia istintivamente richiama
alla mente nel momento in cui la storia oltrepassa i suoi confini e li
sovrappone alla letteratura. Per me personalmente rappresenta la falsariga
del testo di Ricci, la trama sottile che ondeggia attraverso il linguaggio
della trilogia colorandone le parole e conferendo loro sostanza e vita, come il
tratto duraturo e luminoso dei pigmenti bianchi verso il punto di
trasformazione in miracolo degli affreschi del
Masaccio. Ma è anche di più. Il racconto di famiglia,
la storia non raccontata delle solitudini dell’emigrante costituiscono
ciò che sanguifica il nuovo mondo, la nuova vita. Ruscelli di sangue scorrono attraverso la
trilogia di Ricci, dal primordiale morso del serpente nella mangiatoia alla
prima morte di Vittorio nella cabina della nave, nel letto con sua madre morta,
Cristina, il di lui corpo già putrefatto sul fondale,
tra le lenzuola incestuose macchiate di sangue e di peccato, alla seconda
morte... in un antro, in una vasca calda
e buia. E poi – Acqua, acqua dappertutto, rimarca Cristina - dall’oceano all’«annegamento» del padre nel
laghetto per l’irrigazione, alla vasca/fonte semibattesimale alla fine della
trilogia. Sangue e
acqua, come se il testo stesso fosse scritto da loro, consacrato da loro.
Ma è il sangue, in entrambi i sensi, letterale e figurato, il vascello reale, il crismale che
conferisce identità al testo migratorio, conferendogli nel contempo un forte
senso di stabilità. È il sangue lo
strumento primitivo che registra la condizione errante dell’umanità, che vi inietta la profezia della redenzione, visto che il
linguaggio per sé riesce solo ad oscurare nella misura in cui
rivela, come confida Ricci nell’epilogo della trilogia, un linguaggio sempre a
rischio di staccarsi dai margini della pagina. Una redenzione
di sangue che le poppe volgerà u’ son le prore,
come asserisce il divino poeta.
Le restrizioni della lingua, e particolarmente della lingua bizzarra
degli emigrati, sono le espressioni silenti che, come le toccanti assenze
musicali tra le note, Ricci magistralmente compone
attraverso la trilogia, note leggiadre di una melodia distante che mi lega evocativamente al testo. Questo mormorio testuale
costituisce il ritmo oceanico primordiale della Saturnia nel suo
intreccio del mito con la storia, riproducendo da prua a poppa il suo flusso
narrativo di viaggio sulle righe dell’oceano. Questi silenzi gotici e
profondamente distanti sono i veri modi di parlare degli emigranti, eloquenti
nel loro codice primitivo, sobri nella loro reale mancanza di
articolazioni linguistiche appropriate. Come gli esseri umani a metà di
un milione di anni fa di cui parla Ricci, si esprimono
senza il supporto di un linguaggio adeguato.
È per molti versi il vagare delle interconnessioni dei miei ricordi.
Ritornando al mio stato di sospensione nel mezzo
dell’oceano Atlantico verso la fine di marzo del 1961, sulla mia nave Saturnia,
mi trovo inesorabilmente nell’intreccio delle onde che fanno eco al viaggio
della mia vita, e dell’ermeneutica propria del testo, senza volerlo, in questo
tumulto misterioso, criptico, del passaggio e della trasfigurazione, e da prua
a poppa gioco con entrambe le rive, dimenandomi per confinare me stesso nel
presente unico momento che ha senso, con entrambe le sponde che rivendicano una
parte di me; eppure entrambe risentono del mio stato di sospensione. Così da
prua a poppa le afferro, prima l’una poi l’altra. Da un meridiano fenomenologico, nel tempo della nave, se si vuole, la Saturnia
è ancora una volta il mio presente stato di consapevolezza, il locus privilegiato donde i ricordi, entrambi italiani e
canadesi, sono rievocati da entrambe le sponde, rapidamente organizzati e
precipitosamente attribuiti al loro conseguente significato reale o fittizio.
Uscendo da me stesso per un istante per imitare il teorico letterario o lo
storico d’arte, come San Bartolomeo nella sua morbosa analisi decostruttiva
sulla pelle appesa di Michelangelo nel Giudizio Universale, ho
la sensazione che è qui che entra decisamente in gioco il concetto di Derrida della scrittura orfana (come la condizione di
Vittorio sulla nave) così come le sue pieghe decostruttive
di differance, ricordandoci
l’incapacità da parte della scrittura di dispiegare in modo corretto le pagine
dei ricordi, affidandosi piuttosto alla innata relazione con lo spazio e il
tempo. Allora, ripeto, io ritorno ad avere quindici anni, Vittorio otto. A quell’età ero troppo grande per legarmi
a lui in amicizia, eppure i nostri passi si incrociarono più di una volta
sull’immenso piroscafo. Come in un frammento di sogno, ricordo di averlo una volta guardato a lungo, come se si trovasse dall’altra
parte dello specchio di un’antica credenza di famiglia che mia madre aveva
lasciato in paese, nella casa abbandonata.
Lo avevo fissato mentre camminava sul ponte con
sua madre, una donna incinta dai capelli lunghi e neri e con un portamento in
qualche modo ordinario, tipico delle contadine mondane di media cultura, mentre
un’ombra sannitica di un’audacia ferocemente combattiva ne misurava il passo
deciso.
Avevo fatto un paio di nuove amicizie, più o meno
della mia età, uno di loro, Corrado, ancora prima dell’imbarco, nel vecchio
albergo buio e indistinto di Napoli dove eravamo arrivati in treno la notte
prima della partenza. Era originario di un altro paesino della Calabria, San
Luca, e si dirigeva a Port Arthur
con sua madre
per raggiungere il padre, operaio di ferrovia, del quale aveva sentito parlare
più dai suoi concittadini che dalla sua stessa madre. L’altra era una ragazza di nome Isabella, una signorina lucana, di Valsinni, molto attraente per la sua età, diretta a Kapuskasing, un truce esercizio di pronuncia inglese per
noi tre, dove lavorava suo padre, un padre mai conosciuto (il genere troppo
comune a tutti del pater noster qui es in canada), se non nel ricordo confuso di una fotografia
senza cornice e semistrappata che sua madre conservava semplicemente appuntata,
in alto, su una delle pareti fredde e umide della cucina, vicino al Sacro
Cuore di Gesù, entrambe le foto illustranti macchie di
acqua, come se la pioggia le avesse bagnate, o forse le lacrime, il tipo di
segno che spesso faceva gridare al miracolo questa povera gente del sud, in
assenza di qualsiasi altro tipo di divertimento che potesse alleviare la loro
spiacevole condizione. Anche Isabella era accompagnata da sua madre, una figura
piccola e triste di donna la cui somiglianza all’Addolorata, la madre piena di
dolore delle processioni del mio paese, era davvero sorprendente. Noi tre
formavamo una sorta di trinità profana, io e Corrado adolescentemente
e segretamente desiderosi del sorriso virgineo della nostra sirena Isabella,
entrambi disperatamente persi nella dolcezza della sua voce che ci ammaliava
con quel saluto singolarmente meridionale di santità velata di
erotismo. Viaggiavamo dunque sul mare profondo e aperto dell’Atlantico,
ignari del simbolismo strutturale del nostro viaggio, inconsapevoli del nostro
viaggiare entro i confini narratologici di un
macrotesto, ansiosi di raggiungere con la nostra amata Isabella quello che
adesso so per certo essere il leggendario Pier 21 in
Halifax ma che per noi allora era solo una riva sconosciuta e distante che, a
causa della completa mancanza di conoscenza della lingua inglese,
eloquentemente e innocentemente pronunciavamo Ali fucks.
Rileggendo la trilogia di Ricci mi trovo, molto
similmente a Vittorio, a riorganizzare i miei cimeli, segni preziosi della mia vita-testo, nel libro dei ricordi, affrontando un
pullulare di fantasmi provenienti dal mio passato biculturale.
Collocando me stesso sul solarium della mia Saturnia come un evento
reale (passato) e immaginario (presente), come se stessi interpretando in
limine, sono in grado di isolare i segni del testo come fantasmi personali
e di organizzarli in una struttura di mise-en-abyme, in una incessante
rotazione recedente che pertanto snoda le sue catene, come in una sorta di
dialogo speculare che riflette i frammenti della mia stessa vita. Attraverso una rilettura di Ricci prendo coscienza dell’essenzialmente imperfetta, sebbene
vitale, connessione tra nave e oceano,
tra scrittura e lettura, tra partenza e arrivo. Mi sembrano tutte come delle
porte girevoli. Sono qui, corpo e segno, soma e sema,
sul vascello della mia stessa pagina, e ancora vago da
prua a poppa, da ponente a levante, da un’estremità all’altra, registrando
eventi tra due sponde distanti e sconosciute. A volte il pensiero della grande nave che traccia le linee del mio destino da
emigrante mi fa sentire un senso di peculiare sconforto, come accade ora, quando
la lingua viene meno e sono in piedi, solo, appoggiato alla ringhiera della
nave, intento a fissare il vuoto dell’oceano senza fine. Sento e temo perché
probabilmente la mia nave non è grande, al contrario è una piccola barca
sconvolta da venti di tempesta, che si volge verso il naufragio e l’oblio. Sento che l’immensa estensione del grande colosso blu, la mia Saturnia, sta per svanire
rapidamente come una nave di morte, ridotta alla sua essenza, come la mia anima
disciolta nel vortice del proprio dolore, fino al mero, minimalistico
cinerario di un’urna antica, come se prua e poppa, nel loro stato di
sospensione, si fossero congiunte in una, oscurando con ciò l’autentico margine
del linguaggio. E così nessun sale di ispirazione irrora la mia pelle, in questa oceanica
poetica di citazione. Improvvisamente
però onde di evocazioni sepolcrali raggiungono in
fretta la mente dopo decadi di silenzio; una grande tomba oceanica apre le sue
oscure e voraciche gole inghiottendo il corpo di una
madre. Ora ricordo tutto vividamente. Corrado era
troppo pauroso per esserne testimone, ma io ed
Isabella ci svegliammo presto quella chiara e fredda mattina di fine marzo. Ci incontrammo sul quarto di ponte che dava sulla poppa, e
mi accolse ancora una volta quel familiare senso di sconforto, che come un’onda
cavernosa si scagliava contro di me, mentre il sole si spostava lentamente sul
mare immobile. Avevamo avuto sentore
della sepoltura in mare la notte precedente da un marinaio di coperta che
avevamo conosciuto e che, sebbene più grande di noi, era stato ench’egli abbagliato dagli occhi luminosi di Isabella, come se la ragazza fosse l’autentica
incarnazione della stella maris che lui
aveva sempre desiderato vedere in tutti questi anni sul mare. Io ed Isabella avevamo entrambi paura di
assistere al macabro evento. Eppure la curiosità si impadronì
di noi. Eravamo curiosi e impauriti, come quando insieme, un paio di giorni
prima, stavamo leggendo, poco prima della grande
tempesta, una storia magistralmente intessuta su un giovane uomo che con l’età
aveva imparato a scoprire se stesso, come se noi stessimo leggendo e scoprendo
noi stessi e la forza della narrazione ci avesse semplicemente sospinto,
spingendoci dentro al corpo e al sangue stessi del testo. Una sorta di testuale
apoteosi transustanziale del Corpus Christi.
Sembrò allora che la luce o la luce dei nostri sensi, come ogni cosa, fosse
diventata buia, e da quel giorno non leggemmo più. Ma quella fatidica mattina rimanemmo lì, inosservati, come
se non ci fossimo affatto, appoggiati alla ringhiera, appollaiati sulla poppa,
anfiteatro lugubre, circondati dall’immensità dell’oceano, le cui onde
silenziose erano pronte ad emergere e inghiottire tutti noi, a comando del
fato. Tra i frammenti di cose accadute una quarantina di
anni fa, ricordo, come in un sogno a lungo sognato e tinto di quel curioso
senso di disperazione, la sacca completamente coperta di un corpo che scivola
in mare decorato in fretta e miseramente con il tricolore. Ma come
nell’epilogo di un sogno, quando ci si sveglia un attimo
prima dell’inevitabile, non riesco a ricordare il tonfo del corpo morto
della madre di Vittorio mentre colpisce la superficie delle acque. Quell’immagine è
forse troppo triste, cupa, da poter essere trattenuta nella memoria. O forse la poppa enorme, alta, della Saturnia
con la sua barriera imponente e con il suo parziale baluardo offuscarono
entrambi, il suono e lo sguardo. Forse
l’immagine si è dissolta nel testo-vita di santa Cristina
il cui corpo, sul punto di colpire le acque, fu visto librarsi sulla superficie
del mare come un’ombra, prima di essere condotto in paradiso.
Similmente a Vittorio, avevo dovuto leggere le
narrazioni esortative e rivestite di colore delle Massime eterne e del codice Vite dei Santi (entrambi i tomi
debitamente canonizzati dagli imprimatur e nihil
obstat dell’epoca che aggiungevano valore e
significato). Da bambino, nel mio
vecchio paese, la mia vita quotidiana era vissuta
nell’aureola di un realismo magico di stampo meridionale, una sorta di confusione
crepuscolare dove santi e peccatori si mescolavano, spesso giocando una vivace
partita a scopa o a briscola, e dove madonne e serpenti condividevano lo stesso
terrirorio. Come Vittorio, che ascolta i devoti
portatori della sua Valle del Sole che sperano che la Vergine Maria non rimanga incinta,
altrimenti loro devono portare un peso in più, anch’io ho udito storie sulla
velata annunciazione del mio omonimo Gabriele, e che forse la sua sia stata
ancor di più la visitazione di un amante.
Non potevo immaginare, da bambino negli anni cinquanta, che secoli
prima, nel tardo Quattrocento, sotto l’autentica generosità di un nobile
celebre ed edonistico, letture comunemente dannose
come queste venivano in realtà rappresentate nei monasteri e in altri spazi di cifratura cattolica per meglio educare e perciò ridirigere
la gioventù italiana di allora tra le braccia di Madre Chiesa. L’eresia e l’ortodossia si mescolavano nei
nostri paesi e nessuno batteva ciglio. Dopotutto noi italiani avevamo innalzato
l’arte ad un grado supremo attraverso la mera sintesi di Cristianesimo e
paganesimo. Proprio come Vittorio, sono
cresciuto in un villaggio perso nel tempo, dove i pomeriggi d’estate foschi,
sonnolenti, cadenzati ritmicamente dal suono delle
cicale, spesso cedevano ad un’indolente preghiera contaminata da tentazioni
viscidamente devianti. Un paese in cui preti e prostitute spesso guidavano le
processioni della festa dell’Immacolata Concezione, una reintroduzione
ambulante della sacra rappresentazione medievale, un miscuglio curioso di
spettacolo profano e primitivismo religioso dove ognuno era allo stesso momento
spettatore e attore e dove ognuno istintivamente catturava, come in
un’iconografia bizantina, la valenza allegorica di ognuno, mentre ogni
partecipante a turno dispiegava una particolare tipologia, una maschera
tragicomica il cui canovaccio segreto, il cui rituale gesticolare, invocavano
connessioni superstiziose con la Mater clementissima.
E così, mentre l’elevata Immacolata, Virgo
prudentissima, benediceva noi tutti poveri
figli banditi di Eva dal suo trono sollevato ed
instabile, e mentre l’impura in basso batteva con umili preghiere e salmi,
autentica apoteosi della diffusa Santa Maria Maddalena, il curato buono e
virtuoso si impegnava a bagnare tutti noi con il suo aspersorio, con le sue
contorsioni corporee curiosamente manierate, come a voler espiare i molti
demoni, reali e immaginari, che affliggevano il paese. Come nelle pagine del testo di Ricci, sono
cresciuto in un paese in cui l’ossequiosa osservanza di riti di superstizione
pagana era tanto importante quanto l’ortodossia religiosa, e dove la novena
della Madonna entro le pareti spesse e affrescate della nostra Chiesa Madre
gotico meridionale, serviva anche da luogo di incontro
per riunioni clandestine, boccacciane e per conclavi
devotamente diffamatori. Eppure, entro
queste rappresentazioni pagane del Cattolicesimo meridionale, dove gli occhi
del male, i colori dei serpenti e i sermoni savonaroliani
drammatizzati e personalizzati di orde di padri Nicola
– ognuno a loro modo avanzi di costumi oraziani
liberatori del delectare et
monere – sono tanto persuasivi quanto l’ultima
intercessione della Vergine, e dove la corretta decodificazione dei vari segni
della vita è una necessità assoluta, lì ancora si trova un’oasi di un passato
pastorale, un locus amenus
dove l’anima cerca la sua consolazione.
È l’ode all’età dell’oro dell’anima che Vittorio canta inconsciamente
sulla poppa deserta al calare della notte, un codice icario,
una allegria sensuale che nel suo ritornello
capriccioso del vola vola, perso com’è
sullo sfondo di un cielo vago profondo bluastro, immerso nel mare, è
irrevocabilmente destinato, anch’esso, alla discesa al fondo dell’oceano.
Guardando attraverso la circolare perfezione del
mio oblò, del portello della cabina della mia nave, sopra le incommensurabili
profondità di onde perenni, apparentemente silenziose,
scorgo momemti di epifanie auto-referenziali, lessemi testuali e personali che indicano il desiderato
porto metaforico per le navi di emigrati sospinte dalla tempesta di memorie metaletterarie. Ma il testo saturniano
è un reliquiario di memorie, una galleggiante nave-vita felliniana
che non raggiungerà mai la riva, che si nutre e si contiene in se stessa così
com’è, come una mappa mundi medievale il cui mistico corpo crocifisso raggiunge il baratro, la barriera stessa della
nave, oltre la quale il pellegrino emigrante rischia un naufragio letterale e
allegorico, come quasi fece Vittorio nella furia della tempesta, le onde alte
mostruosamente minaccianti di divorare la sua stessa anima. La mia Saturnia
porta, insieme alla sua dignità e alla miseria umana, il sogno fosforescente di
miti sacrali e cicliche valanghe di riti sacri, riti
di passaggio subliminali. Nel crepuscolo di un giorno di sangue e acqua,
strumenti metonimici e classici di antiche iscrizioni,
essa porta ancora i restanti frammenti della mia memoria, cimeli sommersi di
iridescenti riflessi. Un testo, en clair,
come la vita stessa, rimane pur sempre una disequazione
con una promessa di infinite soluzioni, lo sciogliersi
di un nodo che non era mai stato stretto. E mentre i ricordi diventano ancora
più frammentari, quasi inattendibili, la topografia del paese si ridisegna
ancora, questa volta da una topografia di onomastica, una
poetica di allusioni e tropi verbali che cercano di fornire un contatto più
controllabile con la realtà passata. Il
paese dei parenti e degli amici di Cristina, Di Lucci, Luciano, zia Lucia
(tutti indicatori di luce come evidenziato dalle
qualità tonali dei loro nomi) fu un tempo capace di fornire modi interpretativi
di una realtà percepita che aiutò a dare forma alla fantasia di Vittorio. Ma col primo ritorno
in paese, come col mio, il protagonista trova, e ne rimane costernato, che
entrambi la lingua e il paesaggio sono cambiati talmente tanto che non si può
più confermare la verità stabilita. E i portatori di
lume di un’oscura età non possono più confermare le realtà vissute o
immaginarie di un tempo passato. Lo stesso Fabrizio, l’amico fidato della
giovinezza di Vittorio, un postino con una inclinazione
per le conoscenze arcane, il portatore stesso della parola scritta, non può
confermare quella verità, fabbricando invece per Vittorio una restituzione
articolata di eventi passati come se venissero letti da un libro diverso. Un assurdo gioco sulla millenaria infanzia del linguaggio e
l’indelebile linguaggio dell’infanzia, con la conseguente inabilità da parte di
questo strumento volgare e povero di comunicazione di interpretare la
realtà. La trama onirica della lingua nella trilogia, e
specialmente il discorso metalinguistico sulle sue
limitazioni in quanto alla corretta decodificazione del passato in Where She Has Gone offre una
palinodia sottilmente velata, una ricorrente ritrattazione che è, secondo me,
un supremo esempio delle coeve affinità tra lo stato dell’emigrante e lo stato
del linguaggio che per sua natura è errante, migrante. Mentre questo motivo è antico forse quanto la prima iscrizione
sulla sabbia o sulle pareti di qualche caverna, è chiaramente un motivo
privilegiato nella cultura contemporanea canadese. E ciò non dovrebbe
sorprenderci, visto l’innato atteggiamento multiculturale
e multilinguistico. Ma le
correnti ondulanti di Ricci su questa sovrapposizione del linguaggio e sui suoi
elementi strutturali sono così particolarmente armoniosi che, a mio avviso, non
possono certo essere ignorati. La
trilogia è di per sé un trittico che aprendosi e chiudendosi in se stesso
rivela esattamente nella misura in cui oscura.
A questo punto, per ragioni di brevità, possono essere richiamati solo
due momenti chiave autoreferenziali, momenti che io
stesso ricordo dal mio primo ritorno in paese. Uno riguarda la convinzione che
nel paese, quando Vittorio vi abitava, non ci fosse
elettricità, che non ci fosse luce o ce ne fosse comunque poca; l’altro
riguarda la sua sorpresa nel vedere una fotografia di se stesso con la madre
scattata il mattino della sua partenza. Il lettore ricorda con Vittorio che
quel mattino pieno di vento pioveva molto e che Di Lucci intendeva, infatti,
scattare una foto dei due, per ricordo, disse. Eppure,
non fu scattata alcuna foto nella rigida economia narrativa del ricordo e non
vi è alcun segno, reale o finto, di pioggia nella fotografia, o almeno nessun
segno che il lettore, d’accordo con Vittorio, possa decodificare correttamente,
diversamente dalle lacrime miracolose, reali o immaginarie, che somigliavano a
gocce di pioggia sui ritratti grossolanamente appuntati ai muri dei sacri
cuori, madonne e santi nei paesi del meridione d’Italia. Eppure le
ripercussioni di questa piovosa assenza si prolungheranno fino alla fine della
trilogia, in quell’ultimo lucente bagliore della luna
e i falò, dove la voce d’autore del Ricci si sente
più intensamente e intimamente, dove si ha la sensazione dell’assenza di quegli
spazi che popolano le architetture dipinte di Della Francesca. Forse lo stesso Di Lucci, quel maldestro uomo
di luce, sarebbe stato capace di fare un po’ di luce in merito, sebbene se ne possa dubitare, avendo testimoniato l’atto-memoria
performativo da parte di entrambi zia Lucia e Luciano.
Forse la luce non proviene dalle cose ricordate o
dimenticate ma semplicemente dal loro improvviso esserci, come ricorda Marta,
apparentemente grossolana e ottusa, che misteriosamente evoca la donna dal
volto mezzo coperto rivestito di nero di Giotto, e che bruscamente contempla la
fotografia nella credenza che non mostra alcun segno di pioggia. Come evidenzia il formalista russo Bakhtin,
l’attività estetica non è nient’altro che un atto di auto-espressione, un
eterno istante di auto-rivelazione. Mentre guardo verso ovest, oltre la
ringhiera della prua, il sole è appena tramontato, ma oltre la poppa il buio
invadente sta per avvolgere la nave come le pieghe gotiche di un mantello scuro
che nasconde il corpo del monaco benedettino sul
pannello di legno senese. La notte calerà presto sulla mia Saturnia. Come le mani esperte di un restauratore
consumato, la notte presto cancellerà i graffi e la spellatura della vernice
intorno alle sue gigantesche lettere bianche sulla enorme
fiancata. Ma
prima che una nuova alba irrompa, rompendo i lacci della morte con la sua luce
orientale iridescente, i cimeli della mia memoria seguiranno ancora di nascosto
la nave che va alla deriva trasportando antichi fantasmi di un marinaio
adolescente. Un de profundis
sacro, ancora timorosamente oscuro e arcano come quando lo recitavo sull’altare
da ragazzo nelle messe funebri del mio paese, con Padre Petrone
severamente attento alla mia pronuncia del latino, come se il requiem aeternam del povero defunto dipendesse interamente
da essa, pervade adesso con il suo inscrutabile
canto litanico entrambi la nave e l’immenso oceano
come una nebbia fitta scura che avvolge l’ultima reliquia della mia mente, una
preziosa rima ancora esistente. Come un cruciverbista,
un fabbricatore di chiodi di parole eternamente in fuga, incapaci di trovare
una nicchia stabile, cerco di afferrare questa reliquia elusiva per la intensità originaria della sua immagine spettrale, per
recuperarla dai tentacoli mortali del buio, come se in essa fossero contenute
le ultime vestigia di una finale parola crociata, qualche elemento unico e finale che come una
pergamena oracolare meglio dirige e controlla la mia
connessione a Life of the Saints di Ricci, anzi
alla sua intera trilogia, guidandomi in modo sicuro verso un significato del
testo privilegiante. Ma come la lira di Vittorio,
l’iconica moneta rotolata nell’oceano alla fine del libro, questo frammento
salvifico della mia memoria da emigrante, questo antiquum
documentum,
anch’esso, si avvolge nel buio senza speranza prima di inclinarsi fatalmente
verso lo steccato della mia Saturnia precipitando infine nel mare
immobile.
*****
Narrami un sogno, raccontami la tua vita, Isabella poteva aver chiesto, come nell’epilogo
di un viaggio, dalla piega chiaroscura del suo passato lucano, come se non
decadi ma secoli di ricordi frammentari siano improvvisamente
divenuti liquescenti entro i confini di una
singola pagina, forse di una singola frase. Ed io avrei voluto dirle, come un
inizio che è in sé una fine, che un giorno le scrissi
una lettera ad un indirizzo in Kapuskasing, quasi
illeggibile sul frammento irregolare di carta intestata sul quale l’avevo
scarabocchiato – e che porta lo spettro scolorito di parte della poppa di una
nave che lascia una scia - ancora venerato come le reliquie di un santo,
l’illusione materiale di un sogno immateriale.
Ma come un boomerang, il sinuoso debole snodarsi di un serpente,
nell’arco di pochi giorni la lettera fece ritorno, la busta mai aperta, con su scritto in cifre, misteriosamente: indirizzo
sconosciuto. Proprio così, come l’ultimo
frammento vitale del libro dei ricordi, come il corpo di Cristina che scivola negli abissi senza rumore, non visto, proprio così
Isabella svanì dalla mia vita-testo. La
voce di Isabella, la divina voce della mia sirena, non
è più udibile attraverso i frammenti della mia memoria, e neppure quella di
Corrado, né di Vittorio, sebbene il loro silenzio immobile echeggi ancora il
mio, la loro danza spettrale a bordo della Saturnia, alla stesso tempo
romanzata e reale, alimenta ancora la mia immaginazione. Ciò che ora sento
chiaramente, come il finale risveglio da un sogno acrodolce di girevoli pieghe di pagine che bruciano, è la
voce autorevole di Nino Ricci che stavolta
severamente mi ricorda i gravi rischi che sto correndo sull’alto e aperto mare
dell’Atlantico, nel mezzo dell’immenso oceano emigratorio, con tutte le sue
metonimiche filiazioni, a bordo del piccolo vascello del mio intelletto. Farei bene ad ascoltare la sua voce perchè, esperto artigiano della parola, insieme mi diletta e mi ammonisce, insieme offre salvezza e profetizza
il naufragio nelle parole immortali di un altro errante testuario
e supremo narratore del pericoloso viaggio dell’anima letteraria:
O voi che siete in piccioletta
barca,
desiderosi di ascoltar, seguiti
dietro al mio legno che cantando varca,
tornate a riveder li vostri liti:
non vi mettete in pelago, ché forse,
perdendo me, rimarreste smarriti
(Paradiso 2,i-vi)
(Tradotto da Anna Ciardullo Villapiana)
Gabriel Niccoli ha conseguito un PhD in Letterature Comparate presso l’Università della British Columbia.
Dopo aver insegnato all’Università di Victoria e a quella di Washington
è attualmente Professore Ordinario in Italianistica
presso l’Università Cattolica di Waterloo e in Anglistica
e Francesistica nei programmi post lauream dell’Università di Waterloo. Si occupa maggiormente di letteratura
comparata e delle scrittrici del Rinascimento.
Ha anche curato un volume di racconti di emigrati
italiani in Canada.
* Ristampato
dalla The New
Quarterly: Canadian Writers & Writing, Numero
93, "The Writer Abroad," inverno 2005, (c)
Gabriel Niccoli.
**********************
Between two strange and distant shores:
Fragments of personal connectedness to Nino Ricci’s
Lives
of the Saints trilogy*
By Gabriel Niccoli
Gabriel Niccoli,
PhD in Comparative Literatures and professor of Italian and French Studies at
St. Jerome’s University and the University of Waterloo, was one of the readers
at the several events The New Quarterly staged as part of Waterloo Region’s One
Book, One Community celebration of Nino Ricci’s Lives of the Saints. He framed his reading with a testimonial
to the authenticity of the world the novel evokes, the world of Niccoli’s own childhood and adolescence. In the elegant
essay that follows, he traces the convergent lines of critical insight, memory,
and the imagination.
—Kim
Jernigan, editor, The New Quarterly
If this brief
account of my own personal connectedness to Nino Ricci’s Lives of the Saints, indeed to his entire migratory trilogy, has to
have a beginning, a sort of mysterious rubrical incipit whose seemingly immutable
features inscribe significance and identity both to the text and to this
privileged reader, then that beginning, which is in itself an end, occurs on a
misty cold day toward the end of March in the year 1961, on the high open seas
of the Atlantic. I was only fifteen when I broached the crossing of the
mythical seas, at once real and imagined now through the fragments of my
memory, an oceanic journey replete with all its metonymic filiations, like an
ancestral palimpsest whose ritualized shadings beckon spirits of old to
preserve and recall some long lost oracular code. Yet, this classically
anointed immigrant journey remains for me the liquid compass, the one
undulating marker that best controls my reading, both of Ricci’s text and of my
own life-text, guiding my very ship Saturnia, at once real and imagined, to what appears to me a
distant and strange, yet friendly, shore; to a seemingly stable, reassuring,
and enduring significance.
I was trained to conform to the notion that valid, scientific
critical theory must always take rigorous steps to reaffirm the purely
rhetorical construct of a literary text, a text governed by its own set of
internal laws which seem in turn almost engendered to exclude literature’s
relationship to the world, spinning as they do on their own textual and intertextual underpinnings. But in this case no critic am
I; rather, a criticaster at best, a devout dilettante whose discursive double
reading greatly reduces the technical/literary weaving of the various strands
of significance of the text, and whose consequent gothicism
disproves some of postmodernism’s founding axioms. Broaching Ricci’s text then
not as a literary critic but as an engaged non-textuary,
as a reader, that is, whose basic premises and digressions are but fragmented
relics of his own personal migratory memory, I am licensed to take Lives of the Saints out of its
inter-referential discourse, out of the sphere of multiple meanings suggested
by its constant allusions to other currents, traditions, and works in order to
make it speak to me, thus placing it in the wake of my own life-text, as Nabokov’s memory, as Claudel’s
conversion, or as Dante’s self-serving hermeneutics in his Vita Nuova. A sort of
naïf reading, as it were, with no skepticism or vigilance on my part; a
re-reading, if you like, of lived and imagined reality with no theoretical or practical
application outside of its own construct. Vittorio’s
voice echoes mine, his sombre silences articulate
mine, as in an uncanny twist of fate we are both crossing the Atlantic at
exactly the same time in recorded history, on the same ship Saturnia, and it is difficult for
me to say which part is real, which imagined.
My connectedness to Lives of
the Saints begins then, quite canonically, in medias res
or, wishing to map it, in the middle of the great immigrant ocean, as
mentioned. A middle liquefying locus which stages the unstable state of
suspension that at once connects and disconnects, illumines and obscures both
shores, of adolescence and maturity. I cross the ocean on my Saturnian vessel, and it occurs to me, now as I wester, that I am merely following in the footsteps of
previous generations of immigrant mariners, remapping their journey’s fate and
pasting it unto mine. My seafaring vessel, as I wade through the dense murky
waters of a fragmented memory, is the great immigrant ship that pulled anchor
under the drooping eye of that ancient somniloquent
giant Vesuvius, carrying with it its usual human cargo of unfulfilled dreams
and renewed hopes, of ancient blue and brown immigrant trunks filled with fine
white linen, and of cheap blotted black and white photographs of the loved ones
left ashore, each blot or smear as if initiating sorrowful lapses of memory.
Immigrant memories that, like a will, become operative the moment the ship of
one’s life sets sail, as if the harbourless vessel
were somehow henceforth destined to navigate solely on an ocean of oblivion.
Propelled by the unruly winds of a disjointed memory and by the aura of a
solemnly forlorn meaning that perhaps only ships can ascribe to an immigrant’s
life, my large seafaring vessel is etching the deep, also carrying aboard, as
stated, a little boy some seven years younger than me, and whose name is Vittorio Innocente. Art and life,
history and fiction mingle and, again, it is not easy for me to say with any
certainty which is which.
A soft-spoken, fifteen-year old melancholian
from a desolate village in Calabria, in the deep
south, one of those faceless villages known as sending towns in immigration
studies, a village eerily similar to Valle del Sole, along with my perennially
black vested mother, quasi funereal in her dignified gait, I cross the Atlantic
in order to join my father, a stranger really but one whom I loved dearly.
Since the middle of the nineteenth century both my father’s and mother’s
ancestors had crossed this very ocean in search of a much sung better life. My
great grandparents had returned to the village just in time to inhabit their
freshly minted graves, proudly decumbent under the ornately Rococo tombstones
their Canadian sacrificial earnings had provided, clay cadavers forever now
part of the landscape’s titular topography and the village’s sepulchral tropography. Laden with years of toil and solitude, they
had braved the burdens of the long return oceanic voyage, their sole and final
one, in order to spend their last waking hours with their long lost darling
ones, no longer recognizable, nor indeed comprehensible to each other. They had
kept their faith, had lived their rituals, and had returned home, even though
centuries earlier Dante had persuasively debunked the regulating valence of the
return to
Returning to my state of suspension in the middle of the Atlantic in
late March of 1961, on my ship Saturnia, I find myself inexorably woven in the echoing
ripples of my life’s journey, and of the text’s own hermeneutics, without
wanting to, in this mysterious cryptic whirlwind of transference and
transfiguration, and from stem to stern I play with both shores, struggling to
confine myself to the unique self-present moment of meaning, both shores
claiming a part of me; yet, both resenting my suspended state. Thus from stem
to stern I reach them, first one, then the other. From a phenomenological
meridian, on ship’s time, as it were, the Saturnia is once again my present
state of awareness, the privileging locus whence memories, both Italian and
Canadian, are recalled from both shores, hurriedly organized and hastily
attributed to their real or fictive sequential meaning. Coming out of myself
for an instant in order to mimic the literary theorist or art historian, as
Saint Bartholomew in his morbidly deconstructive treatment of Michelangelo’s
hanging skin in the last judgment, I sense that it is here that Derrida’s
notions of writing as orphan (as Vittorio’s state on
the ship), as well as his deconstructive folds of differance, come forcefully into
play, reminding us of writing’s inability properly to unfold memory’s pages,
relying instead on its innate relationship with space, and time. And so I am fifteen again, Vittorio
eight. At that age I was really too old to befriend him, though our
paths on the great immigrant ship had once or twice crossed. As in a fragment
of a dream, I recall once gazing at him, as on the other side of an ancient
family credenza mirror my mother had left behind in the old abandoned house in
the village, as he walked on the promenade deck with his mother, a dark, long
haired pregnant woman who carried herself with a certain nondescript pride,
typical of the southern half-literate peasant mondaine,
a Samnitic umbrage of fiercely heroic readiness
measuring her stride.
I had made a couple of new
friends more or less my age, one of them, Corrado,
even before we embarked, at the old indistinct albergo in Naples where we had
arrived by train the night before our departure. He was from another Calabrian village called San Luca, and was going to
In re-reading Ricci’s trilogy I find myself, very much like Vittorio, reorganizing my cimelia,
treasured markers of my life-text, in the book of my memory, confronting swarms
of ghosts from my bicultural past. By locating myself on the solarium of my Saturnia as a real
(past) and fictional (present) event, as if I were glossing in limine, I am able to isolate
textual signals as personal phantoms and arrange them in mise-en-abyme structures, in an
endlessly receding rotation, hence loosening their shackles, as in some sort of
specular dialogue, mirroring fragments of my own
life. As I re-read Ricci I become thus aware of the essentially flawed, yet
vital, connection between ship and ocean, between writing and reading, and
between leaving and arriving. They all seem to me like revolving doors. So here
I am, body and sign, soma and sema, upon the
vessel of my own page, and again from stem to stern I wander from west to east,
from one margin to the other, recording events between two distant and strange
shores. Yet, at times the thought of my great oceanic ship tracing the lines of
the immigrant’s fate fills me with a peculiar sense of despair, as it does now,
when language fails me and I stand alone at the ship’s rail, gazing out over
endless sea. And I sense and fear that perhaps no great ship is mine; rather, a
little bark buffeted by stormy winds, heading for shipwreck and oblivion, the
immense length of the great blue hulk which was my Saturnia rapidly vanishing like a
ship of death, reduced, like my soul melting away in the vortex of its
distress, to the mere minimalistic cinerary inseity of an ancient urn, as if stem and stern had
connived to be one in one. No salt of inspiration sprays against my skin, in
this oceanic poetics of citation. Suddenly though, waves of sepulchral imagery
rush to mind like a mind’s month over decades of silence, an oceanic great tomb
opening up its dark voracious mouth, swallowing a mother’s corpse. Yes, of
course, I remember it vividly now. Corrado was too
faint-hearted to witness it, but Isabella and I awoke early that clear cold
morning in late March. We met on the quarter-deck, overlooking the stern, and
that familiar sense of despair rushed like a cavernous wave toward me again as
the sun was just edging above a still sea. We had heard about the burial at sea
the evening before from a deckhand we had befriended and who, though older, had
also been dazzled by Isabella’s blazing eyes, as if she were the very
incarnation of the ghostly stella maris he had always longed to see all these years at
sea. Isabella and I were both afraid to view the macabre event. Yet, curiosity
overtook us. Curious and afraid we were, as when together we were reading a
couple of days earlier, during the great storm, a masterfully crafted story
about a young man’s self-discovery and coming of age, as if we were reading and
discovering ourselves, and the narrative force just carried us along, pulling
us into the very body and blood of the text. A sort of
textual
Similarly to Vittorio, I had had to read the exhortatory and colour-plated narratives of the Eternal Maxims and of the codex Lives
of the Saints (both tomes duly canonized by the meaning-producing imprimaturs and nihil obstats of an earlier age) as a child,
in my old village, and my everyday life was lived in a halo of a southern brand
of magic realism, a kind of crepuscular daze where saints and sinners mingled,
often playing a spirited card game of scopa or briscola, and where Madonnas and
snakes did share a common ground. Like Vittorio,
listening to his Valle del Sole’s devout processional bearers’ hopes that the
Virgin Mary had better not get pregnant, else they wouldn’t be able to carry
the extra weight, so did I hear stories of my namesake
Gabriel’s veiled annunciation being perhaps more of a lover’s visitation.
Little did I know as a child in the Fifties that centuries earlier, in the late
Quattrocento, under the very munificence of a popular
and hedonistic lord, popularly maleficent readings such as these were actually
staged in monasteries and other Catholic-coded spaces in order better to
educate and thus redirect the Italian youth of the day back into the arms of
Mother Church. Heresy and orthodoxy mixed in our villages, and nobody blinked
an eye. After all, we Italians had brought art to a supreme degree through the
mere synthesis of paganism and Christianity. Just like Vittorio,
I grew up in a village lost in time, where hazy somnolent summer afternoons,
rhythmically cadenced to the cicada’s songs, often yielded to an indolent
prayer tainted by viscidly twisting temptations. A village where priest and
prostitute often headed the procession of the festa della Immacolata Concezione, the feast of the Immaculate Conception, an
ambulant reenactment of a medieval sacra rappresentazione, a curious mix of profane spectacle
and religious primitivism where everybody was at once both spectator and actor,
and where everyone instinctively captured, as in Byzantine iconography, the
allegorical valence of each, each participant in turn playing a particular
typology, a tragicomic mask whose secret canovaccio, whose ritual gesturing
invoked superstitious linkages to the Mater
clementissima. And so as the exalted Immaculate
One, Virgo prudentissima,
blessed us all poor banished children of Eve from her raised unstable throne,
and the maculate one trod in humble prayer and song, veritable apotheosis of
the popularized Mary Magdalene, the good and virtuous curate busied himself in
sprinkling all of us with his aspergillum, his bodily contortions curiously mannered, as if to expiate
the many demons, real and imagined, that afflicted the town. As in the pages of
Ricci’s text, I grew up in a village where the obsequious observance of pagan
superstitious rites was as important as religious orthodoxy, and where la Madonna’a novena within the thick-frescoed walls of our
southern Gothic Chiesa Madre, our mother church, served also
as a gathering for Boccaccian clandestine rendezvous
and piously calumnious conclaves. Yet, within this pagan pageantry of southern
Roman Catholicism where the evil eye, the colours of
the snakes, and the dramatized and personalized Savonarolan
sermons of hordes of Father Nicola’s—all in their way remnants of Horatian liberating modes of delectare et monere —are as potent as the Virgin’s
latest intercession, and where the proper decoding of the various signposts of
life is an absolute necessity, there still lies an oasis of pastoral yore, a locus amoenus
where the soul seeks its solace. It is the beckoning of the sending shore. It
is the ode to the soul’s golden age that Vittorio
unconsciously sings on the deserted stern as night falls, an Icarian-coded sensual playfulness that in its whimsical vola vola flight,
lost as it is against a vague deep bluish backdrop of sky immersed in the sea,
is irrevocably bound, it too, to descend to the bottom of the ocean.
As I look through the circular perfection of my oblò, of the porthole in my
ship’s cabin, above the fathomless depths of seemingly hushed unending waves, I
see moments of self-referential epiphanies, textual and personal lexemes
pointing to a desired metaphorical harbour for the
storm-tossed immigrant ship of meta-literary memories. But the Saturnian text is a reliquary of memories, a floating Fellinian life-ship that will never touch shore,
self-nourishing and self-contained as it is, like a medieval mappa mundi whose crucifixual mystical body reaches the precipice, the ship’s
very rails, beyond which the immigrant pilgrim risks literal and allegorical
shipwreck, as Vittorio almost did in the fury of the
tempest, the tall waves monstrously menacing to devour his very soul. My Saturnia carries,
along with its human dignity and misery, the phosphorescent dream of sacral
myths and the cyclical stream of sacred rites, subliminal rites of passage. At
the twilight of a day of blood and water, classic metonymic tools of primitive
inscription, it carries still the remaining fragments of my memory, sunken
relics of iridescent reflections. A text, en
clair, as life itself,
remains an inequation with a promise of infinite
solutions, the untying of a knot that was never too tight. As memories become
even more fragmented, almost unreliable, the village’s topography is mapped
again, this time by the tropography of onomastics, a poetics of allusion and verbal tropes that
attempts to provide a more verifiable contact with past reality. Cristina’s
village relatives and friends, Di Lucci,
Luciano, zia Lucia (all
markers of light as evidenced by the tonal qualities of their names) were once
able to provide interpretative modes of perceived reality that helped to shape Vittorio’s imagination. But upon his first return to the
village, as with mine, the protagonist finds to his dismay that both language
and landscape have changed to the point where they can no longer confirm the
established truth. And the lamp carriers of a dark age can no longer confirm
the lived or imagined reality of a time past. Fabrizio
himself, Vittorio’s boyhood trusted friend, a postman
with a penchant for arcane knowledge and the very carrier of the written word,
cannot confirm that truth, fabricating instead for Vittorio
an articulate rendering of past events as if it were read from a different
book. The oneiric texture of language in the trilogy,
and especially the metalinguistic discourse on its
limitations to decode properly one’s past in Where she has gone, offer a thinly veiled palinode or revolving
retraction which is, in my view, a supremely artistic example of the coetaneous
affinities between the immigrant state and the state of language which is by
its very nature errant, immigrant. While this motif is perhaps as ancient as
the first inscription in some cave, it is clearly a privileged one in
contemporary Canadian narrative. And not surprisingly, given our innately
multicultural stance. But Ricci’s undulating ripples of this overlay of
language and structural elements are in my view particularly harmonious, and
cannot be ignored. The trilogy itself is a triptych which, opening unto and
folding into itself, does truly reveal as much as it obscures. Two
self-referential key moments only, for the sake of brevity, might be recalled
here, moments that I myself recollect from my first return to the village. One
is the conviction that there was no electricity, no light, or at least very
little of it in the village when Vittorio lived
there; the other, his surprise at seeing a photograph of himself with his
mother taken the morning of his departure. We all remember with Vittorio that it had been raining heavily that windy
morning and that Di Lucci
had intended, in fact, to take a photograph of the two, per ricordo, for memory’s sake, as he had
said. Yet, no picture is taken in the strict economy of memory’s narrative, and
there is, in fact or fiction, no sign of rain in the photograph, at least none
that the reader, along with Vittorio, can properly
decode, unlike the imagined miraculous tears that resembled raindrops on the
rudely wall-pinned portraits of sacred hearts, madonnas,
and saints in the villages of southern Italy. Yet, the repercussions of this
absence extend to the very end of the trilogy, in that glossing final glow
where Ricci’s authorial voice is felt most poignantly and intimately, the
feeling one has of the spatial absences that populate Della Francesca’s painted
architecure. Perhaps Di Lucci himself, that bumbling man of light, would have been
able to shed some light on the matter, although, having witnessed the performative memory-acts from both Aunt Lucia and Luciano, one rather doubts it.
Perhaps light comes not from things remembered or forgotten but
simply from their suddenly being there, as the seemingly uncouth and
slow-witted Marta, uncannily reminiscent of Giotto’s
black-clad, half-faced woman, curtly contemplates with respect to the
photograph in the kitchen curio cabinet that shows no sign of rain. As the
Russian formalist Bakhtin points out, aesthetic
activity is perhaps nothing more than an act of self-expression, an eternal
instant of self-revelation. And as I look west, beyond the stem’s rails, the
sun is only just setting. But beyond the stern the encroaching dark is about to
envelop the ship, like the gothic folds of a darkly coloured
cloak concealing the Benedictine body on the Sienese
wood panel. Night will soon fall on my Saturnia. Like the expert hand of a consummate restorer,
night will soon erase the cracked and peeling paint around its yard-high white
letters on its huge flank. But before a new dawn breaks, breaking the snare of
death with its iridescent eastern light, my memory’s relics will still haunt
the ship, drifting ancient wraiths of an adolescent mariner. A numinous de profundis,
still fearfully obscure and arcane as when I recited it as an altar boy in my
village’s funeral masses, Father Petrone sternly
attentive to my proper Latin pronunciation as if the poor dead one’s requiem aeternam
depended wholly on it, permeates now with its inscrutable litaneutical
chant both the ship and the endless ocean like the dense dark fog that envelops
my mind’s last relic, a final fragment, a precious extant rhyme. Like a cruciverbalist, a nailer of words
perpetually in fugue as if unable to find a stable niche, I try to seize this
elusive relic by the primal intensity of its spectral image, to retrieve it
from the deathly tentacles of the dark, as if in it were contained the last
vestiges of a final crossword puzzle, some single ultimate factor that like an
oracular scroll controls my connectedness to Ricci’s Lives of the Saints, indeed, to his entire trilogy, safely guiding
me to a privileging significance of the text. But like Vittorio’s
iconic one lira coin rolling into the
ocean at book’s end, this saving fragment of my immigrant memory, this antiquum documentum,
it too, reels hopelessly in the dark before tilting fatally toward the rails of
my Saturnia,
finally tumbling out into a dead sea.
Narrami un sogno,
raccontami la tua vita, tell me a dream, tell me about your life, Isabella might have
asked, as in the epilogue of a journey, from the Lucanian
chiaroscurant folds of her past, as if not decades
but centuries of fragmented memories had suddenly turned liquescent
within the confines of a single page, perhaps a single sentence. And I would
have told her, as a beginning which is in itself an end, that I once wrote her
a letter, to an almost illegible address in Kapuskasing,
the irregular fragment of letterhead paper on which it had been
scribbled—bearing the faded phantasm of part of a ship’s stern etching a
line—still venerated like a saint’s relic, the material illusion of an
immaterial dream. But like a boomerang, the sinuous limbless recoiling of a
snake, within the time arch of a few days the letter had returned to me, its
envelope never opened and bearing the cryptically-coded inscription: address
unknown. Just like that, like the last vital fragment of memory’s book, like
Cristina’s body sliding off into the abyss without a sound, unseen, just like
that, Isabella had vanished from my life-text. Isabella’s voice, my saintly
siren’s voice, is no longer audible now through the fragments of my memory, nor
is Corrado’s, nor indeed Vittorio’s,
though their still silences still echo mine, their spectral dancing aboard the Saturnia, at once
fictional and real, still fuelling my imagination. What I do hear now clearly,
as if finally awakening from a bittersweet dream of encircling folds of burning
pages, is Nino Ricci’s authorial voice, this time sternly reminding me of the
grave risks I’m taking on the high open seas of the Atlantic, in the midst of
that great immigrant ocean, with all its metonymic filiations, aboard the
little vessel of my intellect. I had best heed his voice for he is, yet again
skilled craftsman of the word, at once delighting and admonishing me, at once
offering salvation and prophesying shipwreck in the immortal words of another
errant textuary and supreme narrator of the literary
soul’s perilous journey:
Ye weary mariners in your little
barks,
Rowed by desire to heed my ship’s
own course
That weaves its luscious song into the deep,
Turn back to sense your
shores yet once again,
And do not sail onto my
open seas,
Lest, losing sight of me, you lose your senses.
(Paradiso 2, i-vi;
transl. and ital. mine)
Gabriel Niccoli holds a PhD in Comparative Literature from the
University of British Columbia. He is
Professor in Italian Studies at St. Jerome’s University and in the graduate
programs of English and French literatures at the University of Waterloo. He has published extensively on Italian and
French Renaissance literature and on women’s writing. He has also edited a volume on Italian
Canadian immigration stories.
*Reprinted from The New Quarterly: Canadian Writers & Writing, Number 93,
"The Writer Abroad," winter 2005 (c) Gabriel Niccoli.