Egidio
Marchese
Col suo primo romanzo
The Italians del 1978, Frank G. Paci si presenta come uno dei
pionieri della recente letteratura italo-canadese, asserisce Joseph Pivato, anch’egli pioniere
della critica di quella letteratura. Nello stesso anno 1978 Pier Giorgio Di Cicco, originario di Arezzo e oggi celebrato “Poeta
Laureato” in Canada, pubblica Roman Candle, la prima raccolta moderna di poesie di autori
italo-canadesi, ivi incluso lo stesso Pivato. Sempre
nel 1978 Antonio D’Alfonso fonda la sua Casa editrice Guernica Editions, che difende e
promuove la letteratura italo-canadese, che in quegli anni va fiorendo ovunque,
da Vancouver a Edmonton e Calgari,
a Toronto e a Montreal. (Si
veda Joseph Pivato, A
History of Italian-Canadian Writing).
F.
G. Paci nasce a Pesaro nel 1948 e aveva quattro anni
quando la sua famiglia di umile origine si trasferì in Canada, a Sault St. Marie,
nel Nord Ontario. Ebbe un’adolescenza penosa, come tanti nelle famiglie degli
immigranti. Nel 1970 conseguì la laurea B.A in
inglese e nel 1975 quella B. Ed. in pedagogia
all’Università di Toronto. Qui fu incoraggiato a scrivere da Margaret Lawence, che gli consigliò di attingere ispirazione dalle sue origini. Nel
1978 infatti esce il suo primo volume The Italians
ch’ebbe un notevole successo, seguito da Black Madonna (1982), tuttora
il suo romanzo più famoso. Intanto aveva completato i suoi studi in
inglese, conseguendo la laurea M.A. alla Carleton University. Seguono molti altri romanzi (si veda
sotto la Biografia), particolarmente i romanzi della serie “Black Blood” (Bildungsroman), che ha come protagonista Marco Trecroci. Attualmente vive a Mississauga, presso Toronto dove insegna in una scuola
secondaria superiore.
La critica letteraria si va occupando sempre più delle opere di Paci sotto
vari aspetti. Per esempio, nell’antologia di saggi critici curata da
Pivato, F.G. Paci: Essays on His Works
Una opinione comune è che le opere di Frank G. Paci siano di stile
realistico. Egli stesso nell’Intervista spiega la natura del suo stile, e
Caterina Edwards nell’articolo citato sopra difende il suo realismo. Certo, si può dire che il suo stile
non è quello di un vecchio naturalismo e non manca di fascino. Così si legge nel
racconto The Stone Garden: “How beautiful reality was when mixed with
the unclear vision of imagination and wonder!” (224)
Qui di seguito presentiamo il suo racconto, delizioso e in fondo
drammatico, Growing Up with the Movies, sulla crescita dei giovani tra
la realtà e, appunto, una “unclear vision of imagination and wonder!”
Alla fine aggiungiamo una utile bibliografia dell’autore. Separatamente in
questo stesso numero di Letteratura
canadese e altre culture presentiamo l’Intervista in tre parti di D. Minni
e J. Pivato a F.G. Paci. Successivamente presenteremo altri saggi critici sul
nostro autore.
(Traduzione
dall’inglese di Egidio Marchese)
C |
irca
un mese dopo la festa di Susanna, ero con Rico al palco del Cinema Princess a
guardare The Alamo.
Siccome lo avevo aiutato nei suoi compiti tante volte
al telefono, egli di tanto in tanto mi compensava portandomi al cinema. Era il
suo modo di pareggiare il conto, suppongo, benché lo spettacolo diurno al
Sabato costasse poco. Rico era un fan di John Wayne e imitava spesso il suo
modo di camminare ondulando e la sicurezza del suo sguardo tagliente di fronte
agli ostacoli che incombevano.
Quel sabato, comunque, John Wayne non era il solo a
recitare in un dramma.
Come al solito il cinema quel pomeriggio era pieno
zeppo. I ragazzi rumorosi e inquieti. Stendevano i loro piedi sopra i sedili di
fronte o si urtavano nei corridoi, conversavano a voce alta, ridacchiando o
schiamazzavano davanti lo schermo, e costantemente cambiavano di posto con gli
amici. Le giovani maschere cercavano di mantenere l’ordine freneticamente.
Molto spesso un cartoccio vuoto di pop-corn schiacciato veniva lanciato dal
palco come un piattino volante. Se faceva un colpo dritto, scoppiava un tuono
di applausi.
Occorreva un supremo sforzo di concentrazione per
seguire il film.
Ma se tu fossi come me, saresti rimasto inchiodato
allo schermo, con gli occhi sbarrati e le orecchie aperte per accedere
totalmente all’ipnotico mondo del tecnicolor, cinemascope e suono stereofonico.
C’era qualcosa che mandava interamente in trance, a guardare persone più grandi
della vita reale in uno schermo gigante, illuminato da colori più vibranti e
densi della vita reale, con una musica eccitante che accresceva il dramma – le
attrici più belle e sexy della realtà, gli attori più audaci e belli e disinvolti
di chiunque tu abbia mai incontrato nella noia quotidiana di Sault. E anche se
fossi andato al cinema con amici e il locale fosse come al solito pieno di
rumorosi ragazzi, più interessati a incontrare gli amici e a socializzare o
sgranocchiare pop-corn per tutta la durata del film, l’oscurità del cinema
tuttavia ti racchiudeva, ti separava dagli altri – anche dalla persona con cui
eri andato – tanto che ti sentivi sempre solo dentro il mondo del film. Per me
l’oscurità rendeva il film tutto proprio, lo rendeva in parte sogno, in parte
completo appagamento dei tuoi desideri, in parte fantasia, ma tutt’insieme un
riflesso del profondo struggimento dell’anima ad ottenere fama, ricchezza e
amore.
Cosicché non era John Wayne là sopra, ad affrontare
coraggiosamente tutti quei messicani – eri tu. E non era Richard Widmark o
Laurence Harvey o chicchessia, in quei bei calzoni stretti di pelle di daino
marrone, a parlare tanto svelti, riempendo lo schermo dei loro occhi feroci e
parole pronunciate con mascelle sporgenti. Eri tu. E non era Charlton Heston a
far girare gli occhi alla figlia del Faraone e a dividere il Mar Rosso con
tutto il potere di Dio dietro di lui. O Gary Cooper, alto e taciturno in sella,
che resisteva agli approcci della bella Maria Shell, per alcune segrete pene
della sua vita. O il bel Pat Boone di una carnagione di crema, che faceva gli
occhi dolci a Bernardine o Giget e che alla fine riusciva sempre a conquistare
la ragazza. O Jeff Chandler con la fossetta al viso e i capelli bianchi, che
guidava una carica della cavalleria. O Audie Murphy con una faccia da bambino,
piccolo e compatto in sella, con più coraggio e rapidità nelle sue mani da
battere quei ringhiosi desperados. Ero io.
C’erano tanti eroi nei film western e nelle epiche
bibliche e drammi polizieschi e film di guerra e storie d’amore della città e
commedie leggere.
Non dimenticherò mai Burt Lancaster e Kirk Douglas che
sparando facevano fuori la gang di Clanton in Gunfight at the O.K.Corral.
E Audie Murphy che uccideva tutti quei tedeschi in To Hell and Back. E
Gary Cooper, che per me era l’epitome dell’eroe forte e taciturno, che
conquistava le donne nonostante le barriere di silenzio e di resistenza che
poneva di fronte a loro. E Cary Grant, che aveva l’aspetto e uno spirito ritroso.
E John Wayne con quel grande e grosso corpo e suprema fiducia in sé. E gli
attori meno noti quale Fess Parker che iniziò la voga di Davey Crockett. Questi
e tanti altri ancora, gli eroi dello schermo che crearono i miti che riempirono
la nostra via verso la fama, la ricchezza e l’amore.
E poi c’erano le donne. Ma le donne io le ricordo meno
per il loro carattere che per il loro aspetto e il loro fascino. Coi seni
bianchi e soffici come panna montata che spuntavano fuori dalle loro basse
scollature. E i loro capelli ben acconciati e le gambe lunghe ben modellate e
l’espressione di desiderio che avevano verso i loro uomini. Ricordo le loro
labbra di rubino, così carnose e abbronciate e da baciare - con tanto rossetto
ti saresti perduto nelle loro bocche. Ricordo colli pieni di grazia e sguardi
di santarelline interessate rivolti ai loro uomini.
Come Sofia Loren in The
Pride and the Passion. O Rita Hayworth in They came from Cordura e
Marilyn Monroe in The Seven-Year Itch. Per non menzionare Jayne Mansfield, non importa in quale film fosse.
Queste e altre simili donne riempivano i miei occhi dell’incanto del loro corpo
di donna - così ampio, soffice, invitante, e così appassionato. Tutte donne ben
diverse dalla Beata Vergine del Messale, con la figura ricoperta da un’ampia
veste e gli occhi rivolti al cielo. Chi sa fino a che punto queste sante
immagini insieme alle immacolate statue della Beata Vergine e delle sante
italiane, abbiano distorto il mio modo di vedere le donne? Esse un giorno
potrebbero essere vergini divinità asessuali su un piedestallo, e il giorno
dopo sessuali tigri femmine in cerca di preda.
Anche
Cristo sulla croce era asessuale. La sua pelle era stata tanto battuta e
depilata, in uno sforzo di farlo apparire spirituale, che sarebbe potuto
sembrare niente più che un cosmeticizzato uomo effeminato.
Insieme alle immagini di veri uomini e donne nello
schermo coi loro gesti audaci e i corpi dai busti prorompenti di stelle del
cinema, c’era la colonna sonora che, probabilmente ancor più del banchetto per
gli occhi, manipolava le emozioni che si andavano sviluppando. Orchestre
sinfoniche al completo giocavano con i nostri cuori, mentre gli occhi erano
attratti dallo schermo. Sembrava, a volte, che migliaia di violini uscissero
dai pori dello schermo illuminato, suonando pianissimo in scene d’amore,
tuonando come un risuonare di zoccoli, sbuffando come una locomotiva nelle
varie sequenze dell’azione, e prorompendo in un crescendo di fortissimi nelle
vedute panoramiche mozza-fiato. Un violino ad alta tensione avrebbe potuto
raschiare fuori di me ogni ultimo rimasuglio di emozione, e lasciarmi alla fine
debole ed esausto, cosicché era quasi impossibile fare appello alle emozioni,
necessarie alla banale esistenza di ogni giorno. A volte mi aspettavo anche,
per metà, che i violini nello sfondo gemessero, quando mi trovavo in situazioni
impossibili nella vita reale.
Un film che ha inciso enormemente nella mia vita
sessuale è stato un film italiano, che mia madre mi ha portato a vedere proprio
l’estate scorsa. Contrariamente alle mie aspettative, la televisione non è
servita a migliorare il suo inglese. Lei guardava il film e capiva quello che
stava succedendo in generale. Ma spesso, pure, infastidiva Lianna e me con
tante domande sulla trama che noi ci spazientivamo con lei. “Che cosa dicono
adesso?” diceva. “Dimmi. Che cosa succede?” Non volavano più le
pantofole se la facevo arrabbiare o ero scostumato. Ero ormai troppo grande per
quello. Ma si sarebbe lamentata e mi avrebbe chiamato ingrato se non
l’aiutavo con le storie.
Ad ogni modo, mia madre mi prese con sé perché non
aveva spesso l’occasione di vedere un film italiano - e non sarebbe andata da
sola. Mio padre allora lavorava nel turno dalle tre alle undici. Io non potevo
capire molto bene la lingua del film. Ma allineando la lingua con l’azione e le
immagini ero in grado di afferrare l’essenza di quello che succedeva. Ho fatto
chiaro il punto che certamente non intendevo chiedere a mia madre cosa stesse
succedendo. Guardare qualcosa insieme in relativo silenzio era un gradito
sollievo.
Alla superfice il film era un western, ma una
interpretazione italiana del vecchio west, diverso da ogni altro che avessi mai
visto. In questo western gli uomini erano più interessati alle donne come donne
che come accessori al loro eroismo. In quasi tutti gli altri western che avevo
visto le donne erano naturalmente attratte verso i forti eroi taciturni. Ma in
questo film, di cui non ricordo il nome, qualcosa di strano succedeva. La
signora protagonista era molto bella, molto femminile, e indossava uno stretto
corsetto che sollevava i suoi seni tanto che io pregavo continuamente che
sgusciassero fuori. Lei era interessata a due uomini – uno era un bel vagabondo
cencioso che rappresentava il tipico silenzio eroico di Gary Cooper che io
ammiravo grandemente. L’altro era più loquace, più il tipo di un effeminato
buffone che portava la pistola a lato del suo stomaco come un ridicolo novizio.
Il primo era forte e taciturno – pieno di stoico orgoglio. Il secondo era un
vanesio debole, benché avesse intorno a sé un fascino da ragazzo. All’inizio,
la signora protaginista non gli avrebbe dato un secondo sguardo. Ma lui
continuò a importunarla, non accettando mai il no come risposta, mentre quello
forte taciturno era intento ai suoi eroici doveri. Era come se, mentre il tipo
buono stesse a giocare al baseball e all’hokey cercando di essere uomo, il
debole andasse sempre a ballare come un codardo per adulare la sua ragazza.
Alla fine, quando la signora cedette, non ci potevo
credere. Ho sentito come se lei avesse tradito lo spirito di ogni western che
avevo visto – come se, infatti, avesse tradito ogni forte e taciturno eroe che
avesse camminato per le polverose strade di un paese di gente vigliacca,
paurosa ad affrontare le pistole dei cattivi a mezzogiorno col sole alto. Come
può essersi sottomessa a quel vagheggino, che passava tutto il suo tempo ad
adularla? Non aveva visto attraverso uno schermo di fumo i suoi approcci
d’inganno? Non si sentì fedele a uno che l’amava con il suo orgoglio
silenzioso?
E quando nella scena che si rappresenta ancora oggi
nella mia memoria, lei fece all’amore con questo “uomo di donna,” questo pavone
di un cowboy che cammina impettito con le pistole in alto sullo stomaco, mi
sono sentito completamente perduto. La cinepresa indugiava su di lui mentre la
baciava in quelle labbra di rubino, e poi più giù nei suoi seni di panna
montata – e la mia rabbia non conobbe più limiti! Pensavo che di sicuro quello
forte taciturno avrebbe fatto irruzione attraverso la porta e l’avrebbe preso a
pugni fino a fargli perdere i sensi. Pensavo che di sicuro a quel momento
estremo, prima che lei fosse violata da quel misero surrogato d’uomo, l’eroe
l’avrebbe salvata. Ma no! Questo non accadde, naturalmente. Ché la cinepresa si
mosse proprio quando la testa dell’uomo andava abbassandosi di più sul suo
corpo, si mosse sopra all’espressione di penosa tortura sulla faccia della
donna. Lì indugiò un poco, riprendendo la sua bocca aperta e i suoi occhi
chiusi. Ho pensato per un momento che lei soffrisse un terribile dolore. Cosa
le stava facendo quel vigliacco? Ancora per metà mi aspettavo che l’eroe
arrivasse prorompendo attraverso la porta. Ero confuso per il fatto che la
donna non lottasse. Finché nello schermo fu messo a fuoco il braccio di lei
teso sul lenzuolo, la mano che stringeva il lenzuolo sempre più fortemente,
nella tormentosa gioia dell’estasi sessuale.
Ma anche allora non ero sicuro. Fu solo dopo, nel
film, quando la protagonista cominciò a far festa a quel codardo bellimbusto
come un gatto che graffia il suo padrone – dimenticato completamento il suo
taciturno corteggiatore - che il mio peggiore sospetto fu confermato.
The Alamo, comunque, non era per niente simile a quel western
italiano – quell’aberrazione del mito che solo temporaneamente mi aveva
fuorviato dalla verità dei film. The
Alamo era la verità trionfante. Non c’erano donne che traviavano gli
uomini. Gli uomini erano uomini – che procedevano verso la loro inevitabile
fine con i loro stivali addosso.
Eppure ci volle tanto per arrivare alla scena
dell’attacco finale, con tante sotto-trame – con Frankie Avalon nel ruolo di un
adoloscente da battito-al-cuore e Richard Boone quale Sam Houston e Lawrence
Harvey quale Col. Travis con quel suo tic al labbro superiore rigido che
annoiava tante volte il pubblico.
E fu durante uno di questi momenti di tregua
nell’azione che Rico ed io notammo giù nella platea, la testa di lui
sospettosamente vicino a quella di lei.
“Che diavolo sta facendo quel contadino?” Rico sputò
fuori.
Era del tutto giusto vedere questi piccoli drammi
nello schermo, con gli attori e le attrici che odoravano di pop-corn in pieno
cinemascope e suono stereofonico, ma essere di fatto nella vita reale di uno
era, secondo me, imbarazzante. Ed io sarei scappato a nascondermi, se Rico non
mi avesse afferrato per il braccio e trascinato giù nel corridoio, pochi posti
dietro la coppia amorosa. Questo proprio quando l’armata di Santa Ana si era
ammassata intorno ad Alamo. Quando gli americani avevano risolto tutte le loro
divergenze ed erano pronti a morire con i loro stivali addosso. Leali, adesso,
senza alcun ombra di dubbio, ad affrontare le migliaia di soldati messicani
allineati fuori le mura della vecchia chiesa.
Era alquanto evidente, comunque, che Perry e Maria
sarebbero stati di minimo interesse fra pochi momenti, nello scontro finale tra
i messicani e i texani. Avevano risolto verbalmente le loro divergenze. Ho
dovuto guardare una seconda volta per essere sicuro che effettivamente stavano
amoreggiando.
Quella vista mi fece arrabbiare per ragioni che avrei
potuto districare dopo. Primo, perché stava distruggendo l’illusione del film,
distraendoci da tutta quella maledetta situazione per montare la quale erano
occorse due ore. Secondo, Rico mi aveva trascinato in qualcosa che non era per
niente affar mio. E, terzo, perché quella vista, cosa abbastanza curiosa,
sembrava tanto irreale come se accadesse nello schermo.
Diversamente per Rico, i cui occhi erano tanto feroci,
quanto Santa Ana che reclamava indietro la sua terra, pronto ad annientare quei
pazzi intrusi che avevano osato opporsi a lui.
“Perry!”gridò al di sopra del baccano dei moschetti e
gli urli dei texani.
E tutto quello ch’io potevo fare era di scivolare giù
sulla sedia, sperando che ci sarebbe stata una fossa in basso profonda sei
piedi.
“Andiamo giù. Io l’ammazzo quel contadino!”
Avrei potuto interrompere tutto proprio lì. Se avessi
agito. Invece di essere imbarazzato e voler nascondermi. Forse avrei potuto
stroncare tutta la faccenda sul nascere – era così ingenuo, anche così ridicolo
recitare il dramma di due corteggiatori dietro alla stessa ragazza. Appariva
appropriato nei foto-romanzi di mia madre e nello schermo, accettabile anche
nei fumetti e nei romanzi, ma non nella vita reale con persone che erano ancora
ragazzini. Era questo quel che vuol dire crescere? Recitare tutte quelle scene
che avevamo letto e visto anche nello schermo? Come se nulla fosse penetrato
dentro? Come se non avessimo imparato un’acca da tutte le lezioni dei fumetti e
dei foto-romanzi e dello schermo? Markie Trecroci aveva recitato tutti i grandi
ruoli dei film e dei fumetti. Ma quando fu la volta di recitare il ruolo di un
amico, non ci riuscì.
Cosa, se al cinema Princess avessi detto a Rico di stare
zitto, invece di fare la parte di un asino? Cosa, se gli avessi ricordato la
nostra alleanza – tre dita ma una mano? Cosa, se quei due li avessi preso da
parte e interrompendoli li avessi indotto a pensare a quello che stavano
facendo, che era così ridicolo che sarei scoppiato a rider loro in faccia, se
non fosse stato per la peculiare espressione di soddisfazione nella faccia di
Maria. Infatti quando ci siamo incontrati tutti nel vialetto dietro il
Princess, mentre i due rivali si affrontavano minacciosamente, Maria Marino
stette da parte esortandoli solo a metà a fermarsi. Per l’altra metà lei, cosa
che non mi è sfuggito di notare, era in qualche modo contenta di quello che
succedeva, sorridendo in un modo di auto-soddisfazione, come se fosse compiaciuta
che due ragazzi lottassero per lei.
Ma io non feci nulla.
Benché una parte di me fosse confusa da quel ruolo di
pagliacci seri più appropriato agli adulti, un’altra parte era distaccata come
uno spettatore che guardi la scena di un film. Perché sembrava così ovvio che
stessero recitando i ruoli che erano stati assegnati loro decine d’anni fa,
quando la prima scazzottata era stata girata davanti alla cinepresa, la stessa
che si era poi sviluppata in mitiche proporzioni nelle cinque versioni di The
Spoilers - di cui io ne ho viste solo due: John Wayne contro Randolph Scott
e Rory Calhoun contro Jeff Chandler. La lotta che durò oltre cinque minuti, le
due preminenti star con la loro reputazione a repentaglio davanti al loro
pubblico - e solo le ragioni economiche del botteghino determinavano il
vincitore finale. A queste, e molte altre scazzottate, abbiamo assistito
davanti lo schermo, coi colpi che si abbattevano sempre con un sordo schianto,
i lottatori che cadevano e si rialzavano come se nulla fosse successo, la
faccia insanguinata ma mai seriamente danneggiata perché l’uomo star doveva
apparire sempre di bell’aspetto.
Ma quando il pugno di Rico colpì Perry diritto alla
bocca, non c’era un suono di schianto, Perry semplicemente cadde giù come un
sasso, un soffocato lamento sfuggì dalle sue labbra. E non si rialzò. Ed il
sangue era reale.
Rico stette in piedi davanti a lui ansimando. Tracce
di sangue erano nelle sue nocche, la faccia rossa come una fiamma, gli occhi un
misto di paura e di rabbia.
“Tu contadino!” gridò digrignando i denti. “Tu stupido
contadino! Non ti avevo ammonito su Maria?”
Rico aveva colpito Perry così velocemente, e senza
avvertimento, che ci vollero alcuni secondi a Maria per digerire lo shock del
fatto improvviso. Il vano, compiaciuto sorriso si mutò in un istante in orrore.
I suoi occhi pieni di timore, mentre guardava Rico che non fece una mossa
qualsiasi per attestare la sua presenza.
I suoi occhi erano fissi su Perry, che si contorceva con dolore nella neve.
Appariva una massa di sangue come una macchia di vino. Il mio stomaco cominciò
a rivoltarsi con nausea.
Maria ed io ci siamo mossi gradatamente verso la forma
accasciata del nostro amico, che si era piegato in una posizione fetale ed era
rimasto paurosamente immobile.
“Cosa gli hai fatto?” Maria guardò a Rico.
“Non l’ho colpito tanto forte,” Rico disse, la sua
tempra adesso sottomessa alla paura e al rimorso come se si rendesse conto di
cosa aveva fatto. Cominciò ad allontanarsi lentamente.
“Come hai potuto” lei disse. “Come hai potuto?”
“È colpa
sua. Non voleva dar retta.”
“Vai via di qui,” Maria gli gridò. “Tu rovini tutto.
Non vogliamo vedere la tua faccia.”
“Non
potevo farne a meno. Mi ci ha costretto lui. Non potevo farne a meno. È colpa
sua.”
Rico, scuotendo la testa e camminando all’indietro,
infine si girò e corse giù per il vicolo che riportava al West End, le falde
delle sue calosce che sbattevano sordamente contro i suoi stinchi.
Nella neve che cadeva lentamente guardammo la sua
giacca di pelle nera che recedeva nella distanza. Non c’erano violini che
suonavano. Né cimbali di risonante vittoria che cozzavano. C’era solo un vago
senso che stavamo recitando momenti importanti della nostra vita in totale
anonimità.
* Growing
Up with the Movies è un estratto della prima versione di una scena del
romanzo Black Blood. Pubblicato in “The Anthology of Italian-Canadian
Writing”. Edited by Joseph Pivato. Toronto:
Guernica, 1998, pgg. 260-270, viene qui riprodotto per gentile autorizzazione
dell’autore e dell’editore.
BIBLIOGRAFIA di J. PIVATO
Novels:
The Italians.
Black Madonna.
The Father.
La Famille Gaetano. Trans. The Italians by
Robert Paquin.
Black Blood.
Under the Bridge.
Sex and Character.
The Rooming-House.
Italian Shoes.
Losers.
Hard Edge.
Short Stories:
"Chapter 12" in Italian Canadian Voices. ed. Caroline Morgan Di Giovanni. Oakville: Mosaic Press. 1984.
"The
"From Black Madonna," in Making a Difference: Canadian
Multicultural Literature. ed. Smaro Kamboureli.
"Growing Up with the Movies," in The Anthology of
Italian-Canadian Writing. ed. J. Pivato.
"In
Essays and Interviews:
"Tasks of the Canadian Novelist Writing on Immigrant Themes," in
Contrasts: Comparative Essays on Italian-Canadian Writing. ed. J.
Pivato.
"An Interview with Frank Paci," by C.D. Minni. Canadian
Literature 106 (1985).
"Interview with F.G. Paci," by J. Pivato in Other Solitudes.
Op. cit.
Essay on Frank Paci:
Bonanno, Giovanni. "The Search for Identity: An Analysis of Frank
Paci's Novels," in
Morgan Di Giovanni, Caroline.
"The
Image of Women in Italian Canadian Writing," Italian Canadiana, 11
(1995).
Pivato, Joseph. "Hating the Self: John Marlyn and Frank Paci,"
in Echo: Essays on Other Literatures.
Sciff Zamaro, Roberta. "Black Madonna: A search for the Great Mother,"
in Contrasts: Comparative Essays on Italian-Canadian Writing.
Tuzi, Marino. " Provisionality, Multiplicity, and the Ironies of
Identity in Black Madonna" in The Power of Allegiances.
Waxman, Martin. "The Discipline of Discovery," Books In
Theses:
Tuzi, Marino. Identity, Multiplicity and Representational Strategies in
Italian-Canadian Fiction. Ph.D. English Literature. York University, Toronto. 1995.
1 gennaio 2006
LETTERATURA CANADESE E ALTRE CULTURE