agalletti@corriere.com
(English translation
follows)
TORONTO - Non avrà esordito a 25 anni, ma
il suo primo romanzo, Con le peggiori intenzioni, è subito
diventato un best seller in Italia. Lui lo trova solo un buon esordio,
diversamente l’ha pensata la giuria del Premio Campiello, uno dei più alti
riconoscimenti letterari italiani che Alessandro
Piperno si è visto consegnare nel 2005. Una biografia particolare e una
carriera come professore di letteratura francese all’Università di Roma alle
spalle, Piperno è senz’altro uno scrittore che non corrisponde a nessun cliché.
Presto arriverà a Toronto per l’Ifoa, dove leggerà
alcuni passi del suo romanzo nel corso del International Festival of Authors
che si terrà all’Harbour Front Centre.
GALLETTI - Lei nasce come
professore di letteratura, cosa l’ha spinta a passare dall’altra parte
della barricata, a creare letteratura?
PIPERNO - «In un certo senso le due cose hanno sempre convissuto da quando sono
adolescente, l’età in cui uno capisce che vuole fare lo scrittore o quantomeno si innamora della letteratura. E a quell’età non si pensa a insegnare all’università. Non c’è stato un momento in cui
ho deciso di fare una cosa rispetto all’altra. Le due cose mi sono arrivate
insieme».
E cosa ha fatto scattare la molla che l’ha portata
a scrivere Con le peggiori intenzioni?
«Era un’idea sulla quale lavoravo da molto tempo,
un romanzo – come tutti i primi romanzi – con una forte tensione
autobiografica. Forse ho esordito leggermente più tardi rispetto alla media
degli scrittori, che di solito pubblicano il loro primo libro intorno ai 25
anni (Piperno aveva 32 anni quando il libro è uscito in Italia, ndr), ma ci pensavo da tempo. È un
romanzo che ha avuto una lunga genesi, una gestazione piuttosto lunga e
angosciosa».
Lei ha detto che, come spesso accade con le opere
prime, nel romanzo c’è una forte tensione autobiografica: quali sono gli
aspetti di Alessandro Piperno che si ritrovano in Con
le peggiori intenzioni?
«Si può dire che questo romanzo sia una sorta di
trasfigurazione, una spettacolarizzazione, per essere
ancora più precisi, dei fatti che riguardano la mia vita. Il
rapporto con una strana famiglia alle spalle, dalla genealogia piuttosto
singolare, un matrimonio misto con qualche difficoltà (padre ebreo e
madre cattolica, ndr). La discendenza ebraica e la
discendenza cattolica hanno prodotto questo piccolo disastro che io provo a
raccontare nel libro».
Lei è stato paragonato a Proust e Philip Roth. Un simile raffronto, con autori che lei conosce molto
bene, come l’ha fatta sentire?
«Proust appartiene a
quella schiera di geni dell’umanità che si contano sulle
punta delle dita. È come paragonare un pittore a Leonardo o Michelangelo: sono
cose grottesche. Roth è un grandissimo artista, un
grandissimo scrittore. Per quanto riguarda il mio libro, spero sia un buon
libro di esordio, ma niente di più».
Si dice che il successo raggiunto con il libro
l’abbia per certi versi messa a disago,
è vero?
«Il libro è andato piuttosto bene in Italia e
anche in altri Paesi europei, e ciò mi ha fatto senz’altro piacere, perché
questo è il mio lavoro. Mi fa piacere aver venduto il libro a tante persone,
come mi hanno fatto piacere i soldi che sono arrivati. Tutto il resto, tipo la pseudocelebrità di quei giorni là, che adesso sta svanendo,
questa cosa qui, per chi non l’ha scelto, per chi non c’è abituato, mette un
po’ a disagio. Credo comunque metta più a disagio fare
un libro di cui nessuno si accorge».
Questo è vero, ma probabilmente per lei è molto
più importante scrivere piuttosto che andare in televisione come lo scrittore
del libro di successo.
«Direi di sì. E non per una particolare forma di eroismo ma proprio perché la letteratura, mi passi
l’enfasi, è sempre stata la mia vita, è la cosa che più mi interessa. Invece andare in televisione mi angoscia. L’ho fatto due o
tre volte per ragioni prettamente promozionali. Dal momento
in cui il romanzo ha fatto la sua strada, mai più in televisione».
Ha fatto il suo dovere insomma?
«Sì. Credo che se uno vuole bene al proprio libro
ha tutto il diritto e l’interesse di andare a promuoverlo, cercando di tenere
un comportamento decente, senza sputtanarsi».
Dopo il successo in Italia lei ora sta per
arrivare in Canada: cosa direbbe ai suoi nuovi potenziali lettori per
invogliarli a leggere il libro?
«Direi due cose. Da una parte
che si tratta di un intreccio tra una saga familiare e un romanzo di
formazione, però tutto fatto in un modo postmoderno, cercando di non rispettare
troppo la struttura tradizionale ottocentesca. Dall’altra direi che la
peculiarità di questo libro, con tutti i suoi problemi e i suoi difetti, è che
per la prima volta in Italia - non nel mondo ma in Italia sì - qualcuno ha
fatto un libro sull’ebraismo da un punto di vista non propriamente
istituzionale. Non alla Bassani, insomma, e neanche
alla Primo Levi, che sono autori grandissimi. Credo
sia questo il motivo per cui in Italia se ne è parlato
con una certa passione».
Pensando al suo libro mi permetto di fare un paragone
meno impegnativo. La versione di Barney di Mordechai Richler...
«Io le dico che non lo amo molto Richler,
perché ho la sensazione che sia un epigono di scrittori che amo molto di più.
Forse il problema è che, se lei ce lo sente dentro,
forse anch’io sono un epigono. La cosa che mi piace di Richler
è un certo tono scanzonato e sarcastico, con un personaggio però alla Falstaff, un burbero benefico che poi in realtà dentro ha
un cuore d’oro. La cosa che mi persuade meno è lo stile. Credo che per me lo
stile abbia un’importanza maggiore. Si tratta comunque
di un ottimo scrittore».
A due anni dalla pubblicazione, se prendesse in mano il
suo libro come professore di letteratura, quali difetti ci troverebbe?
«È sicuramente un libro che ha delle ingenuità, che forse
ha qualche problema di intreccio. Credo che sia
abbastanza avvincente per quanto riguarda la descrizione dei personaggi, ma la
storia è abbastanza pallosa. Quindi, forse, oggi lo
farei in modo leggermente diverso. E poi non ha quel
respiro tragico che io cerco nella letteratura».
Visto il tipo di romanzo che ha scritto, un’altra cosa
che mi incuriosisce è come lavora: da cosa parte per
creare un romanzo?
«Questo
romanzo è nato per caso, perché io stavo scrivendo un’altra cosa, la storia di
uno dei personaggi minori del libro, David Ruben, che è un po’ il bello della
compagnia, ispirato a un mio amico che era incorso in
una brutta avventura. Era un ragazzo bello e ricco di origine
ebraica, che poi si è trasformato in una specie di fondamentalista, ha
picchiato dei nazisti romani, è stato quasi arrestato e poi è scappato in
Israele. Insomma, un'avventura piuttosto singolare. Io stavo scrivendo di questa
storia, che poi è totalmente scomparsa dal romanzo finale, e strada facendo mi
rendevo conto che uscivano fuori tutte notizie sul narratore. A quel punto mi
sono reso conto che era un’altra cosa. Quando sono andato
dall’editore, questa parte iniziale, che era sopravvissuta, fu il mio editor di
allora a chiedermi di toglierla».
Parlando di editing, ha già iniziato a lavorare al suo secondo romanzo?
«In questi due anni e mezzo, da quando è uscito il
libro, ho lavorato a un monumentale saggio su Baudelaire, uscito da qualche mese. Un
libro di 500 pagine, quindi un lavoro piuttosto impegnativo, che mi ha fatto
trascurare il romanzo. Ma da quando ho finito
quest’opera, sei o sette mesi fa, ho iniziato a lavorare alacremente al nuovo
libro. Non posso dirle niente in proposito perché in realtà non ho ancora le
idee molto chiare. Però il progetto è ambizioso: le ho detto prima che sono
abbastanza deluso dalla mancanza di senso tragico di Con
le peggiori intenzioni. Vorrei provare a metterlo in questo romanzo. Il rischio
è che quando uno affronta certe tematiche molto grandi
o scrive un capolavoro o qualcosa di stupido. Qualcosa di stupido e anche un
po’ pomposo».
Quindi sta camminando sul filo
del rasoio...
«Si, sto giocando con il fuoco. O
c’è sotto veramente qualcosa, un nucleo forte, tragico, oppure il risultato
sarà incredibilmente patetico».
Si è dato una bella sfida
«Diciamo che in questo momento sono nelle
condizioni di poterlo fare, perché il (primo, ndr)
libro è andato bene e tutto il resto. È il momento in cui posso imporre io il
romanzo che voglio e non è detto che questa possibilità mi ricapiti.
Quando ero piccolo e sognavo di scrivere un libro lungo e
avvincente, ho sempre pensato che nessuno me lo avrebbe mai pubblicato.
Adesso ho la possibilità di imporlo».
Forse è il vantaggio migliore che il successo le
ha dato...
«Questa è forse la cosa migliore. Beh, ce ne sono
anche altre. Anche i soldi non sono male».
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* L’intervista di Alessio Galletti ad Alessandro Piperno è stata pubblicata
sul Corriere
Canadese di Toronto del 18 ottobre
2007 e viene qui riprodotta per gentile autorizzazione
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(English
translation)
agalletti@corriere.com
He didn’t debut at 25 years of age, but his first novel, Con le peggiori intenzioni (The Worst
Intentions), was an instant hit in Italy. He considers it just a good
beginning, but the jury of Premio Campiello
– one of Italy’s top literary prizes – didn’t share his modest opinion and
awarded it to Alessandro Piperno in 2005. With a
peculiar biography and a career as a professor of French Literature at the
University of Rome, Piperno is far from a
stereotypical author. He’ll soon visit Toronto and read from his novel during
the International Festival of Authors at Harbourfront
Centre.
GALLETTI - You
began as a teacher of literature; what led you to jump the fence and start
creating literature?
PIPERNO - “In a sense, these two sides coexisted ever
since I was a teenager, when most realize that they want to write, or at least
that they are in love with literature. At that age one does not think of
teaching in a university. There never was a moment when I chose one thing or
the other. Both happened to me at the same time.”
What triggered your writing Con le peggiori intenzioni?
“It was an idea that I had been working on for some time, a novel –
like all first novels – with a strong autobiographic tension. Possibly I began
writing somewhat later than most authors, who on average publish their first
book at 25 or so (Ed. Note: Piperno was 32), but I
had been mulling over it for a while. This novel had a long genesis.”
You mentioned the autobiographic tension. Which aspects
of Alessandro Piperno can be found
in Con le peggiori intenzioni?
“We can say that this novel is a kind of transfiguration, or
dramatization, to be even more precise, of events that concerned my life. For
instance, my relation with my strange family and its rather peculiar genealogy,
a mixed marriage with some bumps (Ed. Note: his father was Jewish, his mother
Catholic). The mix of Jewish and Catholic descent generated the small disaster
that I try to recount in my book.”
You’ve been compared to Marcel Proust and
Philip Roth. How did such comparisons make you feel, since you know those
authors quite well?
“Proust belongs to a handful of geniuses.
It’s like comparing a painter to Leonardo or Michelangelo; just as grotesque.
Roth is a great artist, a great author. As far as my book is concerned, I hope
it’s a good start, but nothing more.”
People say that the book’s success left you
somewhat uneasy; is that true?
“The book sold quite well in Italy and other European countries, and
that left me pleased, of course, since that’s my work. I was happy to be
selling my book to so many people, and just as happy of the money I made. Everything else – the fake celebrity of the early days, now
thankfully fading away – left me ill at ease, as I hadn’t chosen it and wasn’t
accustomed to it. I believe, however, that writing a book that nobody
notices must leave you even more uneasy.”
True, but you probably deem it more important to write than to go on TV
as a bestselling author.
“Well, yes. Not out of any sort of heroism, but because literature –
pardon my emphasis – has always been my life, it’s what interests me the most.
Going on TV, on the other hand, distressed me. I went two or three times for
strictly promotional reasons, but as soon as the book took off on its own,
never again.”
So, you did what you had to?
“Yes. I think that if authors love their books they are fully entitled
to promote them, trying to keep a decent behaviour
and not to blow their reputation.”
After becoming a hit in Italy, you’re now bringing your book to Canada.
What would you like to say to potential readers in order to entice them to read
your book?
“Two things. On the one hand, that this is a cross between a family saga and a coming-of-age novel, but done in a postmodernist way, trying not to follow the traditional 19th-century structure. On the other, that the peculiarity of this book, with all its problems and defects, is that for the first time in Italy – not in the world, but certainly in Italy – someone wrote a book on Hebraism from a point of view that is not exactly institutional, unlike Bassani, or even Primo Levi, who are both great authors. I think that this was the reason the book was discussed with a certain passion in Italy.”
May I propose a less
difficult comparison? Mordecai Richler’s version of
Barney...
“I must say that I am not overly fond of Richler, because I feel that he is an epigone of writers whom I love much more. Maybe the problem is that if you hear echoes of Richler in my book, I might be an epigone myself. What I like in Richler is his sarcastic tone, with a character that resembles Falstaff, a grumpy old fellow that hides a golden heart. What I find less convincing is his style. I consider style to be more important. Anyway, he’s an excellent writer.”
Two years after
publication, what defects can you find in your own book, speaking as a
professor of literature?
“This book has some naivety, possibly some problems with its plot. I think that its description of characters is enthralling enough, but the story itself is rather boring. Today, I would write it slightly differently. Also, it lacks the tragic spirit that I look for in literature.”
Considering the type
of book you’ve written, one thing that makes us curious is how you work, e.g.,
where did you start for creating a novel?
“This novel was born by chance, as I was writing something else, namely the story of one of the book’s minor characters, David Ruben, the comeliest guy in the group, inspired by a friend of mine who incurred in a nasty adventure. He was a nice and rich guy of Jewish heritage that turned into some kind of fundamentalist, beat some neo-Nazi in Rome, risked being arrested and fled to Israel. I was writing this rather singular story, which I ended up leaving out of the final novel, and while writing I noticed that news on the narrator kept turning out. That’s when I realized that I was writing something else. When I went to my publisher, my editor asked me to delete the initial story.”
Have you started working on your next novel?
“In the past two years and a half since the first novel came out, I was working on a monumental essay on Baudelaire, published a few months ago. It was a 500-page book, so it was rather hard work, which made me leave a new novel aside. But since I finished this work, six or seven months ago, I began working on the new novel in earnest. I cannot tell you anything about it, as my own ideas are in a state of flux. However, it’s an ambitious project; I told you that I was disappointed by the lack of tragic sense in Con le peggiori intenzioni. I’d like to put some in this new novel. The risk is that, when you tackle big issues, you either write a masterpiece or something stupid and a little pompous.”
So, you feel you are walking a
fine line...
“Yes, I’m playing with fire.
Either I manage to write a strong tragic core, or the result will be
unbelievably pathetic.”
That’s a high bar you’ve set for
yourself.
“Let’s say that right now I think
I can make it, since the first book went well. Right now I can write the novel
I want; I can’t say whether this opportunity will arise again in the future.
When I was younger and dreamed of writing a long, engrossing book, I always
thought that nobody would publish it. Now I have a chance to force the issue.”
Maybe that’s the best advantage of
success...
“Maybe. Well, there are other advantages.
Money isn’t bad, either.”
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* The English version of Alessio Galletti’s interview with Alessandro Piverno was published on October 28, 2007, in Tandem, Multicom Media Services Inc., Toronto.
TORONTO - Non solo Piperno. È partita
ieri all’Harbour Front Centre
la 28esima edizione dell’International
Festival of Authors, per i più intimi Ifoa, che raccoglie i migliori talenti da tutto il mondo per radunarli nella capitale
dell’Ontario.
Un'occasione da non perdere per
tutti gli amanti della letteratura, e ancor più per chi ama la letteratura per
bambini degli ultimi anni. Grazie a una serie di fortunati
eventi, infatti, oltre alla già annunciata J. K. Rowlings
(c’è bisogno di ricordare che si tratta della creatrice di Harry
Potter?), saranno a Toronto anche Lemony
Snicket, ovvero Daniel Handler,
autore di Una Serie di Sfortunati eventi.
Ma il festival, che andrà avanti
per dieci giorni, fino al 27 ottobre, offre questo e altro. Novantaquattro
scrittori da una dozzina di Paesi leggeranno le loro opere nel corso dei 32
eventi previsti. Quest’anno la selezione è stata piu
ampia che mai. Tra gli invitati ci saranno anche tre autori di graphic novel, sei commediografi francofoni e dieci poeti.
E a proposito di poesia, una
novità di quest’anno è l’introduzione di un prologo poetico a molti degli
eventi. Se ne occuperanno due nomi di eccezione, ben
noti al pubblico canadese, Priscila Uppal e Ken Babstock.
Come ogni anno a concludere la manifestazione sarà la consegna dello Scotiabank
Giller Prize. I cinque finalisti che si daranno battaglia quest’anno nella
serata finale al Premiere dance Theatre
sono Elizabeth Hay, Michael
Ondaatje, Daniel Poliquin,
M. G. Vassanji e Alissa
York.
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