…Verso Halifax
Connie
Guzzo-McParland
(traduzione di
Elettra Bedon)
Partimmo da Mulirena lo stesso giorno in cui il primo apparecchio TV
arrivò in paese.
Passai quel piovoso pomeriggio di gennaio con mamma, Luigi e zio Pietro a
mettere e rimettere le mani nelle valigie piene da scoppiare, tormentandoci per
decidere che cosa portare o lasciare a casa, mentre un rivolo ininterrotto di gente continuava ad arrivare
con altri pacchi dall’odore pungente da aggiungere alla pila ancora da sistemare.
Venivano con lettere attaccate a involti di formaggi
fatti in casa, di salami, persino di origano essiccato, da consegnare ad amici
intimi e a parenti a Montreal. Zio
brontolava a ogni nuova aggiunta, e io e Luigi
diventavamo sempre più impazienti perché volevamo andare a vedere il televisore
che Anselmo, il proprietario del bar, aveva ricevuto quella mattina, e di cui
ogni nuovo arrivato parlava. Ma poi Rachela, che
lavorava dal macellaio di fronte al bar, ci disse che Anselmo aveva spento la
TV e aveva mandato via tutti i perdigiorno che volevano starci davanti a
guardare fissamente come « babbi » neve sfocata e bianche linee
saltellanti. Poi Anselmo aveva invitato tutti a tornare più tardi
quando l’apparecchio avrebbe veramente preso vita. Lui avrebbe servito
gratis caffè e bibite, mentre loro avrebbero guardato l’unico spettacolo in
programma per quella sera, Lascia o raddoppia,
un gioco a premi per cui tutta l’Italia andava in estasi. Ma
a quell’ora noi dovevamo andare a Santa Eufemia a prendere il treno delle 11
per Napoli. Mi sentivo come se stessi andando via da una festa sul più bello.
Provavo una vaga
e strana sensazione da quando avevamo cominciato a prepararci per il viaggio,
come se il villaggio stesso, come noi, stesse
cambiandosi in qualcosa di diverso da ciò che avevo conosciuto per tutta la
vita. L’inizio dell’inverno era stato mite e mi era sembrato meno tetro del
solito. In autunno la zia Teresa aveva avvolto dei pomodori verdi, rimasti
dall’abbondante raccolto dell’estate, in carta di giornale, ed erano maturati
lentamente. Non si era mai sentito, diceva, di
mangiare pomodori rossi quasi sino alla fine di gennaio. La mamma parlava
sempre meno dei giorni di guerra quando avevano da
mangiare solo erbe di campo e qualche fetta sottile di pane di granoturco
razionato. Adesso il pane, cotto nel forno della nonna, era bianco e
abbondante, e per merenda ce lo spalmava di
formaggino, morbido triangolino avvolto in carta argentata. Da quando avevamo
ricevuto il visto consolare, non passava giorno che qualcuno non mi offrisse qualcosa da mangiare o da bere dicendo :
« Mangia il capicollo, o il fico, o le castagne finché puoi, perché non ne
vedrai più ». Mentre mi si ricordavano tutte le buone cose che stavamo
lasciando per sempre, notavo i nuovi piaceri che cominciavamo a permetterci, ed
il desiderio di lusso che,
mamma diceva, stava cogliendo il villaggio.
A Mulirena, parte di questo nuovo senso di prosperità era dovuto ai dollari che mio padre e altri uomini mandavano
con ogni lettera alle famiglie, permettendo alle nostre madri di viziare noi
bambini con formaggini, gelati e vestiti nuovi. Adesso, dopo due anni di
separazione, la nostra famiglia si sarebbe finalmente ricomposta. Ciò che
stavamo lasciando sembrava diventare sempre migliore, ma l’America era il gran
premio per cui la mia famiglia, come altri nel paese,
aveva accettato di rischiare grosso.
A mano a mano
che la temperatura si faceva più fredda, la nostra mente andava più spesso al
viaggio imminente, e mia madre si mise a fare ciò che ciascun altro prima di
lei aveva fatto per prepararsi. Prima di tutto trovò un compratore, Maria
Angela, per il suo costume tradizionale da sposa. Le donne della generazione di
mia madre indossavano ancora il costume regionale. Per tradizione, venivano sotterrate nel loro costume da sposa, di colore
diverso da quello portato tutti i giorni, ma durante la guerra molte lo avevano
preso a prestito una dall’altra, dal momento che la stoffa per farlo era
piuttosto costosa. Adesso, poiché un numero sempre maggiore di donne se ne disfava per andare in America, lo
vendevano per poche lire a quelle che restavano e che non lo avevano. Nessuno
pensò di portarlo con sé come ricordo; era troppo
voluminoso e ingombrante da mettere in valigia.
La
preoccupazione per il viaggio aveva fatto perdere peso a mia madre. Quando
Adelina, la sarta, prese le misure per due vestiti nuovi, mamma, privata degli
strati di abiti che il costume tradizionale forniva,
odiò ciò che vedeva allo specchio.
« Paru na sarda asciutta »,
disse con disgusto.
Non importa
quanti colori provasse, il blu fu il solo che scelse
per tutti e due i vestiti, il solo che non fosse né troppo scialbo né troppo
appariscente, e insistette su uno stesso modello di collo modestamente
arrotondato per ambedue. Si dovette prendere le misure anche per un reggiseno,
un indumento intimo che, in quanto pacchiana, non aveva mai indossato. Poiché i
suoi seni erano quasi inesistenti, Adelina e le sue
aiutanti imbottirono le coppe con della stoffa avanzata, e poi risero sentendo
la mamma strillare protestando perché risultarono troppo appuntite. Anche a me furono prese le misure per un vestito nuovo, a
pieghe, di lana marrone e con le maniche lunghe, e per un cappotto rosso di
lana.
Mamma cominciò a
mettersi i vestiti nuovi due settimane prima di partire, tanto per abituarsi.
Un’altra cosa che richiedeva attenzione erano i suoi capelli. Aveva lasciato le
trecce dondolare sulle spalle, ma mio padre aveva
scritto che doveva tagliarsi i capelli e fare la permanente, e poiché non c’erano
parrucchieri per signora a Mulinera, zio ci fece accompagnare in macchina a
Catanzaro da Tommaso che forniva un servizio di tassi’. I capelli di mia madre non erano folti come
quelli della maggior parte delle altre donne. Finché
li aveva tenuti intrecciati e gonfiati ai lati questa mancanza non era stata
troppo evidente, ma appena il parrucchiere li tagliò all’altezza del mento
ricaddero piatti e separati in cima alla testa, mostrando tre chiazze quasi
nude, il risultato dell’aver portato per anni carichi pesanti sulla testa.
« Paru na gallina spinnata », disse al parrucchiere.
Dall’espressione
del viso, lui sembrava essere dello stesso parere. « Naturalmente ci vuole
la permanente », disse. Lo zio ci lasciò là e andò a
occuparsi di altri affari, mentre io sedevo e osservavo l’intero procedimento.
Dopo il taglio, il parrucchiere arrotolò i capelli su bigodini, li fermò con
una pinza collegata con un filo metallico a una
macchina. Rimasi seduta sull’orlo della sedia fino a che il parrucchiere staccò
la mamma da quell’aggeggio dall’aspetto pericoloso. Che succede se lei ha
bisogno di alzarsi e di correre fuori dal negozio?,
pensavo. Finita la permanente, il parrucchiere appiattì i capelli arricciati
strettamente in cima alla testa con una qualche pomata, poi li sistemò come
un’aureola intorno al viso e alla nuca della mamma.
Lo zio tornò con
un berretto verde di cachemire e con una borsettina
per me. Poi ci portò a un bar, dove ci offrì un latte
di mandorla, una bevanda bianca e dolce. Ritornati in piazza sul tardo
pomeriggio, e camminando verso casa, mi sentivo una persona diversa, con il mio
berretto nuovo e la borsetta vuota appesa al polso; mamma
sembrava proprio una donna di città, nel suo vestito nuovo e con la
permanente. In seguito non riuscì mai ad
avere i capelli che le stessero così bene; dopo pochi
giorni persero la forma ad aureola, e quando tentò di lavarli si arricciarono
oltre ogni possibilità di controllo.
« Mo, paru na crapa », disse, e si augurò di poter tirare via
tutto.
Fare il baule e
le valigie era un’altra ragione, per la mamma, di
tirarsi i capelli dall’esasperazione. Oltre ai nostri pochi vestiti e al suo
corredo di copriletti, lenzuola e federe ricamate,
bisognava trovare un buon posto per nascondere i pesanti capicolli, sopressate e salsiccie. Ognuno
sapeva, ormai, che non si poteva portare carne insaccata in Canada, eppure
tutti tentavano di mandarla, poiché pensavano che fosse quanto i loro familiari
valutavano di più, di cui più sentivano la mancanza. La spiritosaggine corrente
era che se la carne veniva confiscata la si doveva
mangiare tutta davanti ai doganieri. Dopotutto non c’era nessuna legge che vietasse di mangiare prelibatezze affumicate prima di
entrare nel paese. La prima notizia che tutti gli abitanti del villaggio erano
ansiosi di avere era se i loro salumi ce l’avevano
fatta a passare la dogana. La mamma non poteva mandare indietro nessuno,
« se lo fai con uno devi farlo con tutti »,
diceva, così passammo l’ultima settimana a riempire il baule e le valigie, a
pesare il bagaglio sulla bilancia della drogheria, dal mmomento
che non doveva superare un certo peso specificato. Il baule fu chiuso, legato e
spedito in anticipo, mentre le valigie restarono aperte fino al
giorno della partenza.
L’ultima
domenica la mamma tirò fuori l’unico gioiello che possedeva, una catena d’oro
che le avevano dato i genitori per il suo matrimonio.
Lo lasciò intorno al collo della statua della Madonna del
Rosario, offerta e supplica per implorare aiuto nel lungo viaggio per mare che
ci aspettava.
La stazione di
Santa Eufemia sembrava stranamente poco familiare nel buio della notte. Avevo
preso il treno da lì due volte per andare a Roma per il visto, ma tutte e due
le volte era stato di giorno e in estate, quando la
costruzione bianca di stucchi con file di oleandri rosa da un lato e una palma
dall’altro aveva risuonato dei soliti rumori di treni e di gente che si faceva
largo a gomitate per salirne e scenderne. Quella sera il silenzio fu presto
rotto dal tintinnìo della campanella che annunciava
il treno Espresso, che arrivò così velocemente e rumorosamente, buttando fuori
fumo e acqua dalle ruote, che la mamma istintivamente fece un passo indietro
stringendoci di più a lei. Zio, che
viaggiava spesso, fu il primo a correre vicino al treno, trascinando le due
valigie più pesanti; tutti noi lo seguimmo. Entrò nel primo scompartimento
vuoto e sistemò le valigie sulle reticelle.
Il treno, che veniva dalla Sicilia, non era molto pieno a quell’ora di
notte, ma a giudicare dalla quantità di bagagli degli altri passeggeri anche
loro erano diretti verso la nostra stessa nave. Lo zio trovò un altro
scompartimento vuoto per sé e Luigi, così noi due donne avevamo spazio a
volontà per stenderci. Usammo i cappotti come cuscini. Però io non riuscivo a dormire;
il fischio e lo stridìo delle ruote quando il treno
si avvicinava a una stazione mi tenevano sveglia.
Passammo Amantea, Benevento, Salerno, oltre file e file
di edifici di appartamenti costruiti così vicino alle rotaie che potevamo quasi
toccare i terrazzini. Negli altri viaggi in estate avevo notato lo stucco
macchiato, che si stava sfaldando, i mucchi di immondizie,
ma il quartiere brulicava di vita. Vedevamo le donne stendere vestiti su questi
stessi terrazzini, lenzuola e biancheria intima che svolazzavano al vento,
mentre nelle strade ragazzini in sandali giocavano a calcio e salutavano il
treno con la mano. Adesso, pensavo alla gente che dormiva comodamente negli
appartamenti debolmente illuminati; si sarebbero svegliati al
mattino per fare le solite cose, i bambini sarebbero andati a scuola, gli
uomini al lavoro, le donne si sarebbero occupate della casa, senza sapere
niente di noi che eravamo passati di là per l’ultima volta, oltrepassando la
loro casa così velocemente nella notte, come di nascosto, nel nostro viaggio
verso Halifax.
Connie Guzzo McParland si è laureata nel programma “Creative Writing Master” della Concordia University , dove ha ricevuto il premio David McKeen del 2006-2007 per la sua tesi/romanzo Girotondo. Nel 2005 un brano di questo romanzo, Verso Halifax, ha vinto il secondo premio nella nona edizione del Premio letterario Cosseria, a Cosseria, Italia, ed è stato in seguito pubblicato su Un crocevia (2005). Un altro brano, Inganni e delusioni, è stato pubblicato su Writing Beyond History (2006).
Membro attivo dell’Associazione
scrittori italocanadesi dal 2000, ne
è attualmente la segretaria .Vive a Montreal con i suoi due figli.
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On the Way to
By Connie Guzzo-McParland
We left Mulirena on the same day that the
first TV was brought to town. I spent
the rainy January afternoon with mother, Luigi and Zio
Pietro shuffling the insides of our bulging
suitcases, agonizing over what to bring along or leave behind, while a constant
stream of people came by, bringing yet other pungent-smelling parcels to add to
the pile still left to be packed. They came with letters tied to packages of
homemade cheeses, salamis and even dried oregano, to be delivered to their
close friends and relatives in
A curious feeling had hung
over me since we had started preparing for our trip, a vague sensation that the
town itself, like us, was changing into something different from what I had
known all my life. The start of winter
had been milder and had seemed less somber to me than usual. In the fall, Zia
Teresa had wrapped green tomatoes, left from the summer’s bumper crop, in
newspapers, and they had ripened slowly.
It had been unheard of, she said, to eat red tomatoes until the end of
January. Mother spoke less and less of
the war days when they only had wild field greens to eat with a few thin slices
of rationed yellow corn bread. The bread
now, baked at Grandmother’s store, was white and plentiful, and for snacks, she
spread it with formaggino,
the triangular-shaped little creamy cheeses wrapped in silver foil. Since we
had received our visa, there wasn’t a day that someone wouldn’t offer me
something to eat or drink and not say, “Eat the capicollo, or the fig, or the chestnuts, while you can, for you’re never
going to see them again.” Mother, while
reminding me of all the good things around us that we would be leaving for
good, frowned at the desire for luxury overtaking the village.
Part of our newly-felt prosperity was
due to the dollar bills that my father and other men sent in every letter to
their families, and permitted our mothers to buy us children formaggini, gelati, and new clothes.
Now after two years of
living apart, our family would finally be together again.
We would be boarding the
boat, The Saturnia,
in
As the weather turned colder, our minds
turned to the upcoming voyage, and mother set out to do what everyone else
before her had done to prepare for it. First, she found a buyer, Maria Angela,
for her wedding costume. Traditionally, the women were buried in their wedding
clothes, a costume made of light coloured satin that
they still wore on special occasions.
During the war many brides had borrowed each other’s costumes since the
materials to make it were quite expensive. Now, as more and more women shed it
to go to
Worrying about the trip
had made mother lose some weight. When Adelina took
measurements for two new dresses, mother, deprived of the layers of clothing
that the costume provided, hated herself in the mirror.
“Paru na sarda asciutta,”
she said in disgust.
No matter what colour samples she looked at,
blue was her only choice for both dresses, the only colour that was neither too drab nor too showy, and she
insisted on the same style of modest round collar on both pieces. She also needed to be measured for a bra, an
undergarment that as a pacchiana
she had never worn. Because her breasts
were almost non existent, Adelina and her assistants
stuffed the cups with leftover lining material, and then laughed as they
watched mother scream in protest when the two cups turned out too pointy. I was also measured for a new dress, a
pleated, brown woolen one with long sleeves, and a red wool coat.
Mother started wearing the
new dress two weeks before leaving, just so she could get used to it. The next
thing that needed attention was her hair. She had let her braids dangle to her
shoulders, but father had written that she should have her hair cut and permed, and since there were no hairdressers for women in Mulinera, Zio took us to
“Paru na gallina spinnata,” she told
the male hairdresser.
By the expression on his
face he seemed to agree with her. “Of course, you need a permanent,” he
said. Zio left
us there and went to attend to other business, while I sat and watched the
whole procedure. After the cut, the hairstylist rolled her hair on rods and
then attached each rod to a clamp connected by a wire to a machine. I sat on
the edge of the chair until the hairdresser disconnected mother from the
dangerous-looking contraption. What if she needed to get up and run out of the
store? I thought. When the permanent was finished, the hairdresser flattened
the tightly curled hair at the crown with some pomade, then, arranged it like a
halo around her face and nape. Zio came back; he had bought me a green cashmere hat and a
small blue purse. Then he took us to a bar, and offered us a latte di mondorla, a sweet white drink made from almond
milk. Back home by late afternoon, we
walked up from the piazza. I felt like a new person, wearing my new hat and
carrying my empty purse around my wrist. Mother looked very much like a city
woman in her new dress and permed hair.
She would never be able
to make her hair look that good again. After a few days, it lost its halo
shape, and when she tried washing it, it curled out of control.
“Mo paru na
crapa,” she said, and wished she could pull it
all off.
Packing the trunk and
suitcases was another reason for mother wanting to pull her hair in
exasperation. Besides our few clothes
and mother’s trousseau of bedspreads, embroidered sheets and pillowcases, we
had to find good hiding places for the heavy capicolli, sopressata and sausages. Everyone
knew, by now, that cured meats were not allowed in
On the last Sunday,
mother brought the only piece of jewelry she possessed, a gold rope chain given
to her by my grandparents at her wedding.
She left it around the neck of the statue of the Madonna del Rosario, as an offering and a plea to help us through
the long sea voyage.
The train station at Santa
Eufemia looked strangely unfamiliar in the dark of
night. I had taken a train from there
twice before when going to Rome for our visa, but both times it had been
daylight and summer, and the white-stuccoed train
station with rows of pink oleanders along one side, and a palm tree on the
other, had buzzed with the usual noises of trains and people jostling to get on
and off them. The ten-o-clock train for
The silence was soon
shattered by ringing of bells announcing the arrival of the Espresso train,
which pressed forward so quickly and noisily, expelling steam on the rails,
that Mother instinctively stepped back hugging us closer to her. Zio was the first
to run towards it, dragging the two heaviest suitcases. We all followed him. He took the first empty cabin and arranged
the suitcases on the shelves over the seats. The train which came from
Connie Guzzo McParland is a graduate of the Creative Writing Master’s program at
She has been an active member of the Association of Italian Canadian Writers since 2000 and is the current secretary. She lives in Montreal with her two sons.